Franco Basaglia è, senza dubbio, una figura tra le più belle e appassionanti della storia del movimento psichiatrico. Il libro di Oreste Pivetta (Franco Basaglia, il dottore dei matti. La biografia, Dalai editore, 2012) non è, in assoluto, la prima ricostruzione della biografia di Basaglia. Segue gli ottimi lavori di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio (Franco Basaglia, Bruno Mondadori 2001) e di Maria Grazia Giannichedda (Introduzione a Franco Basaglia. L’utopia della realtà, Einaudi, 2005). Pivetta ha il merito di offrire un testo agevole, puntuale nella ricostruzione della vita e del pensiero, utile in particolare a chi voglia, per la prima volta, approfondire la sua storia. Pivetta ricostruisce il clima sociale e politico e ripercorre il percorso del “dottore dei matti”, interprete e rappresentante del movimento che ha portato alla chiusura dei manicomi. La storia comincia nel 1961, quando Franco Basaglia, dopo dieci anni come assistente, lascia l’università per ricoprire l’incarico di direttore del manicomio civile di Gorizia, che “ospita” oltre cinquecento internati, trattati a insulina ed elettroshock.
Il manicomio gli appare da subito come un enorme letamaio. «Quando vi entrammo – ricorderà qualche anno dopo – dicemmo no, un no alla psichiatria, ma soprattutto un no alla miseria». La legge che, all’epoca, disciplinava i manicomi risaliva al 1904. Lo stigma della malattia mentale è indelebile. Il malato è un dimenticato, privo di dignità e diritti. Basaglia “nega” quella istituzione che lo vorrebbe solo ed esclusivamente come tecnico di un sapere custodiale. Incontra i pazienti, rifiuta di indossare il camice bianco, chiama attorno a sé un nucleo di giovani e motivati operatori, apre i reparti, fa sparire grate e letti di contenzione, restituisce identità e dignità ai pazienti, motiva gli infermieri, introduce un modello di gestione basato su assemblee di gestione tra malati e personale medico. Un percorso lungo che farà di Gorizia il punto di riferimento culturale del nascente movimento di critica psichiatrica, ma che comporterà fatica, rischi e anche numerose denunce.
Basaglia rompe ogni forma di isolamento, e intreccia relazioni con i mezzi di informazione, invitando fotografi e giornalisti a vedere di persona cosa è il manicomio. Sergio Zavoli si reca a Gorizia e realizza, per la Rai, il documentario I giardini di Abele che rende visibile a un intero paese lo stato di abbandono e indigenza dei sofferenti psichici. Scrive Basaglia, nel libro L’istituzione negata, (pubblicato con Einaudi nel 1968) nel quale si raccontava l’esperienza di Gorizia: “Finché si resta all’interno del sistema, la nostra situazione non può che essere contraddittoria: l’istituzione è contemporaneamente negata e gestita, la malattia messa tra parentesi e curata, l’atto terapeutico rifiutato e agito”. E se questa contraddizione non può essere superata, la si può portare al limite delle sue possibilità, fino a giungere al superamento del manicomio. Basaglia è attento a richiamare l’attenzione ai meccanismi capillari del controllo psichiatrico. Il problema non è trasformare il manicomio in una comunità dorata e asettica. Il tema è porre come questione centrale quella della libertà del sofferente psichico. La libertà non è un dono del medico, ma una conquista del malato che deve liberarsi, prima di tutto, da un sapere medico che lo vuole imbrigliare, custodire, sorvegliare. Bisogna, invece, far riemergere la soggettività di chi soffre. Non significa affermare che la sofferenza psichica ha origine solo dalla miseria materiale ma che “esiste una miseria sociale che ci impedisce di esprimere i nostri stessi bisogni e ci costringe a trovare strade anomale e tortuose che passano attraverso la mediazione della malattia, perché ci è impedito di esprimerci in modo immediato”.
Dopo Gorizia, Basaglia si ripeterà a Trieste, tra il 1971 e il 1978. Una nuova stagione di lotte, ma anche di contestazioni e incertezze. La legge 180, del 1978, segna di fatto la lunga fine dei manicomi civili, che chiuderanno, realmente, solo molti anni dopo. Basaglia coglie le potenzialità della legge, ma è consapevole che vi sono delle ombre. La legge 180, però, spezza “la logica dell’emarginazione di classe, consentita dal manicomio e dalla psichiatria, senza richiudere la crisi aperta in nuove teorie”. Non è sufficiente determinare, in maniera astratta, quale sia il sistema di salute mentale ottimale, la legge di riforma altro non è che una sfida che va colta. Un servizio psichiatrico che contenga un elemento utopico, spiega, è quello nel quale “il tecnico ha la possibilità di vivere praticamente la contraddizione tra il suo ruolo di potere e il suo sapere”.
La morte, giunta due anni dopo l’approvazione della riforma, ha interrotto la sua lotta. La lotta di un uomo che poteva nascondersi dietro un camice bianco, un ricco stipendio, una scrivania ordinata e che, invece, ha affrontato, a viso aperto, “il letamaio infernale del manicomio”. Interessato, innanzitutto, a quelle vite che andavano, prima ogni altra cosa, liberate, “perché non è vero che lo psichiatra ha due possibilità, una come cittadino e l’altra come psichiatra. Ne ha una sola: come uomo”. (dario stefano dell’aquila)
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