Dal numero 57 di Napoli Monitor
Fred Wiseman, classe 1930, è arrivato al suo quarantaduesimo film (A Berkeley, da scovare adesso in qualche buon festival) e per nostra fortuna non ha intenzione di smettere. Chi crede di saperne di cinema ma non ha mai sentito parlare di questo maestro americano, dovrebbe tacere, trovare i suoi film e rinchiudersi in una stanza per vederli uno dopo l’altro. Tutti. Da più di quarant’anni, Wiseman documenta in film irripetibili il quotidiano trafficare della vita delle persone nelle istituzioni pubbliche e nei mondi sociali (soprattutto degli Stati Uniti e ultimamente di Francia), catturati nel momento in cui li ha attraversati, per poi lavorarli e consegnarli alla memoria in forma di minuziosi assemblaggi, infusi di ritmo e drammaticità. Ma non chiamateli documentari. Una volta lui stesso ha definito i suoi film “reality fiction”, ma era una battuta volutamente ermetica da dare in pasto a chi vuole classificarlo tra i fautori del cinema verité o del documentario militante.
È la peculiare forma filmica delle opere di Wiseman, rigorosa, a tratti pedante, a fare testo e a rifuggire definizioni univoche. Acquisita già dal suo primo lavoro, Titicut follies, del 1967, a parte piccole modifiche, è rimasta sostanzialmente immutata in tutti i suoi film. Nessuna artificiosità, avanzamento cronologico esile o assente a favore di una progressione tematica, nessuna voce fuori campo, niente interviste, niente aggiunte di musica, effetti speciali o didascalie. Luce e suoni naturali, micro-storie che si interrompono e riacciuffano come nella realtà, l’impressione costante che un’idea dalle immagini stia effettivamente emergendo ma che tocca allo spettatore completarla e dargli senso. Una sorta di saggio audiovisivo opera di un artigiano del cinema, e che però non illustra una tesi esplicita, tentando invece di aprire uno spazio di interpretazione tra quel che accade davanti alla camera e la soggettività del regista, alimentando una tensione che innesca reazioni diverse a seconda dell’occhio di chi guarda quel che Fred ha guardato.
La sua routine è semplice: va nel posto prescelto per diverse settimane con la sua piccola crew e si limita a registrare tutto quello che la fortuna e la sensibilità gli permettono. Poi si rinchiude per mesi e lavora al montaggio. A oggi, i suoi film sono il più accurato inventario delle istituzioni del mondo occidentale: un manicomio, una prigione, una scuola, una fabbrica per la trasformazione della carne, un campo di addestramento dell’esercito, un ospedale, un laboratorio scientifico, una palestra, una centrale di polizia, un ufficio di assistenza sociale, un caseggiato popolare… e, recentemente, una scuola di danza, una compagnia di teatro, uno strip-club e una università. Ogni luogo e momento restano unici, eppure qualcosa filtra di ulteriore, di comune, qualcosa che concerne sia le domande ultime e universali, sia le occorrenze triviali in cui si trova ognuno di noi quotidianamente. Se di militanza si può parlare, allora questa andrebbe concepita come dedizione al lavoro di conoscenza e rappresentazione. Lui direbbe che non saprebbe che altro fare, a parte leggere e sciare. In fin dei conti, un solitario a cui piace stare in mezzo alla gente, che ha conosciuto e reso eroi migliaia di volti comuni. Rispettando l’individuo, guidato da quella che lui chiama fairness: equità, correttezza o come volete definire quell’empatia umana di un curioso del reale che non usa la telecamera per nascondersi. A me, mentre gli parlavo tentando di strappargli più parole di quante fosse abituato a dirne in un’intervista, veniva in mente un frammento del suo Welfare che mi si è conficcato in testa: un indiano americano che appare per qualche secondo soltanto, e la sua esclamazione davanti all’iniquo impiegato dei servizi sociali: «What about the indian people?».
So che vivi a Parigi…
La maggior parte del tempo. Casa mia in America è vicino Boston, a Cambridge.
Perché la Francia?
Mi piace la Francia, il cibo è buono, la città fantastica. Mi piace il teatro, il balletto, e ho un sacco di amici qui.
Come sei passato da avvocato a regista?
Amo fare film, e la legge mi annoiava.
Stai facendo un film adesso?
Sì, un film sull’università della California, Berkeley. Si chiama A Berkeley.
Hai seguito qualcosa in particolare?
No! È su come l’università funziona.
Il solito?
Yeah, il solito.
Quando hai scelto un luogo o un’istituzione, mi puoi dare un’immagine di come lavori?
Scambio lettere con il posto per delineare i termini secondo cui lavoro, sarebbe a dire che voglio accesso a tutto, se è possibile. Se c’è qualcosa che non vogliono che sia filmata, lo rispetto. Gli scrivo anche che mantengo il controllo editoriale e che il film sarà mostrato nei cinema, alla televisione, e verrà distribuito in molti paesi. Quando inizio a girare non ho nessuna tesi particolare in mente, penso solo sia un buon soggetto e che se vado in giro abbastanza tempo, avrò abbastanza materiale dal quale posso montare un film. Vado in un posto con nessuna idea fissa di quale sia il soggetto del film, se non in un senso generale. Il soggetto è il luogo. Poiché non mi immagino quel che accadrà, raccolgo solo sequenze. Di solito non passo più di un giorno nel luogo prima di iniziare, perché non mi piace essere lì e magari qualcosa di interessante succede e me la perderei perché non sono preparato a filmare. Le riprese del film sono la ricerca. Di solito, raccolgo tra le ottanta e le duecentocinquanta ore di girato. Per Berkeley avevo duecentocinquanta ore di materiale. Durante le riprese seguo il mio istinto. Trovare buon materiale è una combinazione di istinto, giudizio e fortuna… Quando le riprese sono finite e inizio a montare, la prima cosa che faccio è guardare tutto il girato. Mi ci vogliono cinque o sei settimane. Alla fine, scarto la metà. Poi monto le sequenze che rimangono e che sono candidate all’inclusione nel film. Questo lavoro prende di solito tra i sei e gli otto mesi. Non posso pensare alla struttura in astratto, devo vedere come funzionano le sequenze quando sono una dopo l’altra e le conseguenze e le implicazioni di mettere le sequenze in un certo ordine. Quando sono pronto faccio il primo assemblaggio in quattro, cinque giorni. Dopodiché mi ci vogliono altre sei settimane per arrivare alla versione finale. A questo punto posso cambiare la struttura velocemente. L’ultima parte del montaggio è lavorare sul ritmo del film, il ritmo interno alle sequenze e quello esterno tra le sequenze. Quando ho la versione finale, resta il missaggio e la gradazione del colore e il film è finito. In tutto, ci vuole un anno.
Come fai a diventare invisibile nel contesto che osservi?
Vedi, non sei invisibile. Io non faccio finta di essere invisibile. Faccio quello che posso per far sentire le persone a loro agio con l’idea che si sta facendo un film. Non mento, non li prendo per il culo, sono sempre molto chiaro. Se qualcuno vuole guardare attraverso la videocamera glielo lascio fare, e se vogliono vedere come funziona un registratore glielo mostro. Faccio quel che posso per demistificare il processo di fare un film. La mia esperienza, in America e in Francia, è che è molto raro che qualcuno guardi in camera o che qualcuno non voglia essere filmato.
Pensi che ci sia una diversa sensibilità verso la videocamera oggi rispetto a trent’anni fa?
Secondo la mia esperienza, fare questi film non è diverso ora da trent’anni fa. Il novantanove per cento delle persone accetta di essere ripresa, non recita e non guarda in camera.
Ho letto che il tuo scopo nel fare questi film non è essere oggettivo ma essere onesto.
Io non ho idea di come essere oggettivo. Non so che significa. Fare un film implica fare delle scelte. Ci sono letteralmente centinaia di migliaia di scelte; cosa riprendere, come girare, cosa usare e come montarlo, cosa accettare e cosa rifiutare. Io faccio queste scelte. E le devo fare assecondando il mio giudizio, la mia esperienza, i miei valori e i miei interessi. Non c’è modo di essere oggettivi. La stessa nozione di oggettività è completamente falsa. Quel che intendo con onesto, è che cerco di fare il film rimanendo leale con l’esperienza che ho avuto stando nel posto per settimane e studiando il materiale per un anno. Non cerco di prendere in giro le persone. Se una situazione è divertente la uso, ma non manipolo il materiale per arrivare a quel risultato. Quando monto una sequenza cerco di capirne il significato – il significato per me. Questo è un giudizio soggettivo. Provo a capire il significato originario di quell’evento e faccio in modo che si preservi nella versione finale della sequenza montata.
C’è qualcosa di politico nei tuoi film?
Non c’è niente di politico che corrisponda a qualche ideologia in particolare. La mia storiella è che se avessi dovuto scegliere un Marx, sarebbe stato Groucho piuttosto che Karl… Questa andava forte nel 1968… Vedi, i miei film non sono apertamente politici. Non corrispondono a nessuna ideologia, a parte l’ideologia che si domanda quel che vedo quando faccio un film. Ma poiché hanno a che fare con certi aspetti della vita contemporanea, talvolta li criticano e talvolta li elogiano. Non mi piace pensare ai film come soltanto politici, amo considerarli film drammatici, narrativi. Il modello per me sono sempre i buoni romanzi, piuttosto che le ideologie politiche.
Quali romanzi?
Moby Dick e L’impostore di Melville; il Don Chisciotte; la Bestia nella giungla di Henry James; e qualsiasi cosa di Philip Roth e Saul Bellow.
Credi ci sia stato un cambiamento nel tuo stile da quando vivi in Francia?
No. Ogni film è diverso perché ogni argomento è diverso. Per ogni film devo trovare uno stile o devo modificare il mio stile per andare incontro alle necessità della materia del soggetto. Per esempio, in Crazy Horse ci sono molti tagli veloci. In Berkeley ci sono sequenze lunghe. Nel primo la storia è raccontata più con le immagini che con le parole. Nel secondo è l’opposto. Lo stile di ogni film è un adattamento al soggetto del film.
Da quanto tempo fai film, Fred?
Faccio questi film da quarantacinque anni, e mi piace pensare che nel corso di questi anni ho imparato qualcosa. Qualsiasi cosa sia, è nei film.
Come sono recepiti i tuoi film dalla società?
Non ne ho idea. Non intervisto le persone dopo che hanno visto i miei film. Lavoro in considerevole isolamento, perciò non parlo con molte persone che guardano film.
Qualche cineasta contemporaneo che apprezzi?
Un documentarista che ammiro molto è Marcel Ophuls. Ma non fa film da quindici anni. Il suo stile è completamente diverso dal mio. Hotel Terminus e The sorrow and the pity sono grandi film.
Di quale dei tuoi film sei più orgoglioso?
Oh, non lo so, è come chiedermi a quale dei miei figli voglio più bene.
A me piace Welfare.
Anche a me piace molto.
Come ti relazioni con persone che se la passano male, come in Welfare e Titicut follies?
Mi comporto come mi comporto sempre. Presumo che le persone che filmo sono sensibili come mi piace pensare io sia. Provo sempre a comportarmi in maniera diretta, decente e onorevole quando ho a che fare con loro. Gli dico esattamente quel che faccio e come lo faccio.
Stabilisci relazioni di amicizia?
Sono sempre molto professionale. Non faccio film per trovare degli amici. Provo a evitare l’impressione che sta nascendo un’amicizia perché ciò sarebbe falso.
Come finanzi i tuoi film?
Canto e vendo penne davanti ai centri commerciali sotto Natale…
E quando non lavori?
Leggo e vado a sciare.
Un’istituzione o un mondo sociale in cui vorresti fare un film ma non ne hai ancora avuto la possibilità?
Ohhh, la Casa Bianca!
Oppure la Cia?
Già, ma non credo mi daranno il permesso. (salvatore de rosa)
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