L’idea del confine è un’idea estremamente astratta eppure ben presente nel nostro quotidiano. In Italia, come nel resto d’Europa, l’abuso delle retoriche sulle migrazioni, in gran parte prodotte dai governi e dai media, orienta in maniera decisiva il dibattito pubblico: i confini guadagnano il centro delle nostre vite, blindando e intrappolando i desideri e le aspirazioni delle persone, riproducendo di continuo scenari a partire dalle volontà politiche di chi governa con la pretesa di controllare corpi e territori, attraverso una normazione dei comportamenti sociali ma anche dei nostri immaginari collettivi. Le scienze umane e sociali ci insegnano che le migrazioni non sono un fenomeno, né una “questione”, ma un processo complesso che muta nello spazio e nel tempo; un processo che viene troppo spesso affrontato in campo accademico seguendo linee di ricerca estremamente specifiche, che producono ricadute flebili sul piano politico e sociale, alimentando anzi divergenze.
Si può, per esempio, ragionare sul rapporto tra genere, sesso e migrazioni superando la retorica dello sfruttamento delle donne migranti nei mercati del sesso? L’orientamento sessuale può determinare la migrazione e/o le richieste d’asilo? E ancora: come costruiscono e negoziano i loro corpi sessuati le figlie e i figli dei migranti? L’emigrazione può creare le condizioni per un cambiamento nelle pratiche sessuali, nelle relazioni e nelle norme?
A queste e ad altre domande vuole rispondere il saggio Genere, sesso, migrazione. Riflessioni transdisciplinari a cura di Fabio Amato (DeriveApprodi, 2021) che compendia i risultati di un seminario promosso nel dicembre 2019 dal centro di elaborazione culturale Mobilità, Migrazioni Internazionali (MoMi) dell’università L’Orientale di Napoli. Un posizionamento particolare per un volume che è stato scritto usando la specola del genere e della sessualità, nodo centrale ma troppo poco esplorato nel dibattito accademico sulle migrazioni. Un lavoro ambizioso, denso nella selezione tematica e trasversale nell’approccio (dai saperi sociali e antropologici a quelli storici e giuridici passando per la filosofia, il cinema e la geografia), come sottolinea Adelina Miranda, specificando la necessità di andare oltre l’enfasi della prospettiva di genere, e articolando una riflessione sulla tensione fra sfera produttiva e riproduttiva, problematizzando il nostro senso comune basato su una visione andro-centrica delle migrazioni.
La mobilità e la stanzialità rappresentano due capacità umane fondamentali, tanto che la loro complementarietà, e compresenza, sono indispensabili per la sopravvivenza umana. Un riferimento diretto arriva dalla rappresentazione simbolica nei Greci antichi delle figure di Hermes ed Hestia, rispettivamente “il movimento” e “il focolare”. In questa opposizione binaria si annida una semplificazione ben poco innocente, una riduzione esplicitata in termini di genere dove la mobilità è maschile e la stanzialità è femminile, una simbolizzazione che ha radici talmente profonde nella cultura dell’Occidente da condizionare ancora la visione che abbiamo costruito delle donne migranti. La donna rappresenta, in una prospettiva occultante e superficiale, la custode della stanzialità, e tutto ciò le rende invisibile poiché “altra” rispetto al tradizionale modello di famiglia, alla rappresentazione dell’esotismo e dell’intimità, alla concezione sessuata e classista della divisione sociale e del lavoro. In questo senso, la più utile lezione che si ricava dallo studio delle vite delle donne migranti è quella dei processi di coscientizzazione culturale e di rielaborazione del patrimonio acquisito, naturalmente con direzioni ed esiti diversi. Vi sono, certo, casi di segregazione, ma ci sono anche casi in cui l’esperienza migratoria costituisce l’emancipazione dalla tutela maritale e familiare, e non solo.
Da una prospettiva femminista si muove la riflessione della filosofa Enrica Rigo, che si concentra sulla riproduzione sociale come chiave di lettura per analizzare l’esperienza “situata” delle donne migranti. Rigo analizza le gerarchie di genere, presenti e caratterizzanti non solo il processo migratorio ma anche la cosiddetta “grande contraddizione” del percorso dell’emancipazione femminile occidentale. Il leitmotiv sulla fragilità e la vulnerabilità delle migranti, rappresentate perennemente come vittime, cancella la dimensione politica dell’agire delle donne, mettendo in secondo piano la subordinazione sociale e strutturale che le migranti devono combattere sia nei luoghi di partenza che in quelli di arrivo. All’interno di questa cornice va collocata la questione della tratta e dello sfruttamento sessuale, su cui ragiona Emanuela Abbatecola provando a scavalcare la contrapposizione tra le retoriche anti-trafficking e quelle pro-sex work.
Nel volume ci si sofferma su temi complessi privilegiando sempre il percorso transdisciplinare. Lo si fa quando si analizza l’intreccio tra storia delle migrazioni e storia della sessualità (nei contributi delle storiche Chiara Fantozzi e Laura Schettini), il rapporto tra prostituzione e migrazione femminile nell’Italia occupata dagli Alleati nel secondo dopoguerra, le diverse forme di partecipazione maschile al mercato coloniale della prostituzione; quando si ragiona sull’Europa come zona di libertà spesso solo potenziale per i migranti LGTBQ+ (lo fanno le giuriste Adele Del Guercio e Chiara De Capitani) soffermandosi sul quadro normativo e sulle sentenze e che ben spiegano quanto non sia affatto scontata la possibilità di riconoscere il diritto di asilo a persone in fuga per motivi legati al proprio orientamento sessuale e all’identità di genere; quando si fornisce (Anna Ferro) come chiave di lettura delle questioni di genere e dei diritti delle donne nel contesto africano la storia del movimento panafricano e femminista, in contrapposizione ai movimenti femministi occidentali; quando si riflette (Mara Matta) sull’importanza del cinema su questi processi – sia come spazio visuale di contronarrazione che di cortocircuito creativo – e nel saggio finale della filosofa Rossella Bonito Oliva, che utilizza la metafora della sabbia come simbolo delle “vite di scarto” per riflettere sulla dimensione etica delle migrazioni.
Il saggio risulta insomma un utile atlante di sguardi in dialogo, che prova a cogliere aspetti poco frequentati – quantomeno in ottica transdiciplinare – con l’obiettivo di immettere nel dibattito problematizzazioni necessarie rispetto ai fenomeni e ai processi umani nel mosaico della contemporaneità. Come scrisse R. W. Fassbinder: ciò che non siamo in grado di cambiare, oggi, dobbiamo almeno descriverlo. (marina brancato)
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