In quest’Italia spezzettata, i treni e ancor più le linee ferroviarie regionali, le loro stazioni, sono un microcosmo da esplorare, come il Pequod di Moby Dick: quello che ne esce è una fotografia più che veritiera della contemporaneità. Gli Omini, compagnia toscana attiva da circa dieci anni, sono stati un mese alla stazione di Pistoia, dove passa la Porrettana, linea regionale tra Bologna e Pistoia che da circa centocinquant’anni attraversa l’Appennino. Hanno raccolto ore d’interviste, parlando con gli habitué della stazione o con chi era di passaggio. Ne è uscito Ci scusiamo per il disagio, in scena fino a domenica scorsa al Piccolo Bellini.
In tre su una scena vuota – gli Omini sono quattro e fanno tutto insieme, Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini, Giulia Zacchini, ma quest’ultima fa un po’ da corega esterna, entrando in scena per piccoli camei –, al centro del palco una panchina, ai lati delle luci come di passaggio a livello; in alto a destra un immancabile altoparlante. Con un movimento circolare ma imprevedibile, i tre si alternano in monologhi o chiacchierate, entrando e uscendo da alcuni personaggi che in un’ora di spettacolo vanno e ritornano: il filippino che vive in Italia da anni e che faceva l’autista di Umberto Dini; il tipo estremo, tutto Dio, patria e famiglia; chi ha lavorato una vita a sverniciare i treni con la pietra pomice; la svampita fricchettona attempata ed esilarante; Soraya, la trans che si lamenta della noia e dell’immoralità dei tempi odierni; una coppia di disadattati cui gli assistenti sociali invece di dare una mano hanno tolto entrambe le figlie; l’operaio specializzato che a forza di tagliare tetti dei treni pieni di amianto si è ammalato.
Le storie sono intervallate dalle incursioni sonore ed extra-diegetiche dell’altoparlante – un po’ Panopticon, un po’ nastro di Krapp – che da voce esterna finisce per dialogare con gli abitanti della stazione, diventando una sorta di deus ex machina/personaggio. In questa carrellata tragicomica, c’è anche una zoomata “generazionale”: più di una volta compaiono dei ragazzi abbastanza incasinati che fanno domande ai passanti, o stanno fermi sulla panchina ad aspettare chissà cosa. Il teatro dell’assurdo di Pinter e Beckett riecheggia in maniera abbastanza naturale in tutto il lavoro, che ha dei ritmi realistici, sospesi, accelerati o spezzati volutamente: con le incursioni dell’altoparlante o della regista che a un tratto entra in scena dalla platea su Shock in my town di Battiato, in una sorta di corto circuito spazio temporale che ci accompagna verso la fine delle storie.
Penultimo di una lunga serie di spettacoli, Ci scusiamo per il disagio s’inserisce nel triennale “progetto t” (treno, teatro, transappeninica) che l’Associazione Teatrale Pistoiese ha affidato alla compagnia per valorizzare e non far morire la Porrettana. Il primo anno ha visto un mese d’indagine, istallazioni fotografiche, performance, creazione di materiale documentario alla stazione di Pistoia. Lo spettacolo ha debuttato in un deposito di rotabili storici. La seconda fase del progetto li ha portati a indagare direttamente il treno, i pendolari: ne è uscito Corsa speciale, un lavoro site specific in una stazione in mezzo a un bosco. Il terzo anno è l’“utopia del progetto”, ancora in fieri: «L’idea è di prendere un vecchio vagone merci e trasformarlo in un teatro viaggiante che parte, arriva, fa spettacolo e riparte: per adesso impossibile», spiegano.
Per realizzare le prime due parti, la compagnia ha avuto non poche difficoltà, col paradosso che il lavoro di valorizzazione del territorio pubblico è stato ostacolato dal privato, cui interessa solo di ricevere il compenso per il servizio erogato. Le ferrovie non sono più un ente statale, sono state smembrate in una miriade di enti privati e burocratici (Trenitalia, Rfi, Cento Stazioni), «dove ognuno ha un suo ufficio comunicazione che è un ufficio censura. Nei video non si poteva mostrare tutto ciò che rappresentava “disagio” (barboni, piccioni, gente che fumava in stazione, etc.). Il disagio che loro ci volevano vietare, per noi è diventato uno stimolo: quel disagio degli ultimi, che sono le persone su cui ci siamo soffermati».
Il lavoro d’indagine è il pane quotidiano degli “Omini” – in lingua toscana “persone comuni” – che hanno debuttato circa dieci anni fa in un campeggio. Tutti under quaranta, con una formazione teatrale non canonica che va dal Dams alla facoltà di Lettere, sono una vera compagnia di giro: nascono nomadi perché non avevano una sede. Hanno iniziato andando in giro per l’Italia e per la provincia di Pistoia a chiedere alle persone di cosa avevano voglia di parlare, registrando tutto. Questi “blitz antropologici” sono denominati “tappe”: in una settimana si raccolgono storie, si scrive lo spettacolo che viene allestito e provato direttamente davanti al pubblico: «La replica nasce e muore in quel luogo. Di questi progetti ne abbiamo fatti una ventina. Ogni volta è totalmente diverso. Dal Molise a Bolzano, in piccoli paesi o quartieri di città, anche tre strade contigue. A volte ci rivolgiamo a enti teatrali o direttamente a enti pubblici. Con risposte molteplici. Quando facciamo “tappa”, quasi sempre mettiamo in scena qualcuno del posto. Non teatranti. Cerchiamo sempre un gancio che ci aiuti a iniziare le interviste. Tutto succede in strada. Non c’è da contare i bicchieri di vino e i caffè consumati in qui giorni».
Questa modalità nasce anche dalla volontà di crearsi un pubblico, di andarlo a cercare, formarlo, invitarlo personalmente: «Le persone intervistate poi hanno voglia di andare a teatro. È buffo quanto succede nei paesi piccoli: vieni riconosciuto come “ascoltatore”. La gente ci cerca per parlare. Si occupa un posto lasciato probabilmente vacante dal prete o dallo psicologo del paese».
Parte di queste interviste sono finite in una raccolta edita dalla Titivillus (in cambio di repliche teatrali). Si tratta di materiale che va oltre il teatro. «Ogni tanto capita di parlarne con qualcuno come Piergiorgio Giacchè, antropologo che si sta spostando sull’antropologia “di superficie” perché si è reso conto che in profondità non c’è più nulla. Nessuno di noi ha fatto studi antropologici, il nostro era un modo per fare teatro davanti a qualcuno, poi ci siamo resi conto che stavamo facendo qualcosa di molto vicino all’antropologia, anche se in modo del tutto anarchico. Ora è diventato un metodo… Uno degli obiettivi è quello di “moltiplicare gli omini”, o almeno quel tipo di atteggiamento: ascolto e osservazione continua di ciò che ci circonda, che può diventare un possibile materiale di scena. La professione di teatrante assume un valore più utile, diverso, ti sembra di prendere qualcosa e di darlo in cambio». Non male per una compagnia che si autoproduce e si autogestisce con una sovvenzione minima regionale (come compagnia di prosa), da qualche anno residente presso l’Associazione Teatrale Pistoiese, senza il cui appoggio sarebbe stato impossibile averli in scena per una settimana a Napoli. Altro che teatro “stabile”. (francesca saturnino)
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