
Un “manipolo di pittori, filosofi, sensitivi, scienziate del suono e della natura, giovani fiori, lepri dell’editing, incantatori di chiodi, qualche bandito in attesa di giudizio, viziosi e informatici” sta lavorando da qualche tempo a quella che loro stessi definiscono una “impresa smisurata”: la realizzazione di un lungometraggio a partire dall’archivio personale di Enrico Ghezzi. Il (non) film di Ghezzi e MalastradaFilm è in questo momento in fase di lavorazione e cerca sostenitori. Pubblichiamo a seguire un testo che ne racconta il “trattamento”.
TrattamentoTractatus
Lo storico formalizza, mette in ordine date e conseguenze e fornisce una lettura scrivendo. Produce scarto e margine poiché la sua cornice è sovente quella grande de La Storia.
Tuttavia prima del suo intervento le vicende umane non sono che attraversamenti nello spazio e nel tempo di individui in relazione. L’oralità, dei tempi antichi e silenziosi, del suono naturale, ha creato i primi poemi immortali. Molti anni dopo, dopo innumerevoli, inenarrabili, incalcolabili altre vicende umane, la passione ossessionata di due fratelli, prossimi a decine di altri cercatori d’ingranaggi, in una tensione che univa il globo invisibilmente, congegnò un’invenzione che dissero, alla sua nascita, senza futuro. Erano i Lumière ormeggianti al cinematografo. Ancora un salto a gambe divaricate del gigante Fantasia, sopra la testa di capovolgimenti, pianti, amori, scoperte, miserie e glorie, lentissimi e costanti movimenti tettonici, ed ecco che l’immagine si fa per la prima volta elettronica.
Lo storico non lo sa ancora, ma il dispositivo della sua grande cornice sta per essere preso definitivamente d’assalto da liberi scrittori in proprio della loro vita. «È nata Aura!».
Quale sarà la prima cassetta? La più smunta, si potrebbe pensare. Quella che riporta, tra le tante senza etichetta, la data più lontana o, forse, quella in cui delle signore eleganti con cappello portano in braccio bambine per una passeggiata pomeridiana sul litorale della casa delle vacanze. Ma le bambine chi sono? È Martina Ghezzi. O Aura Ghezzi? Fosse la prima saremmo nel 1981, fosse Aura non potrebbe che essere sette anni dopo, almeno. Le rivedremo però numerose altre volte in un arco di tempo che dal balbettio delle prime parole passa per i clamori degli adolescenti in età di liceo e poi per le piazze di Genova 2001.
Certamente è il 1989 quando al centro del monumentale parlamento di cartone rosso migliaia di delegati del partito comunista ascoltano ora questo ora quell’altro intervento, mentre in sala stampa, tra inclementi squittii di telescriventi, fax e telefoni, dirigenti Rai come Angelo Guglielmi e Sandro Curzi, insieme a giovanissimi Mentana, commentano sorridenti tra televisori che trasmettono Schegge in palinsesto sulla terza rete. Senza soluzione di continuità lo stesso nastro si muove tra i corridoi di viale Mazzini. Un ufficio taciturno colmo di pile di VHS e U-matic, riviste, maschere, cataloghi, c’è persino un cristo ologramma a parete sul quale l’obiettivo si sofferma e gioca… Ma squilla il telefono, chi filma preme un bottone lampeggiante sul grosso apparecchio aziendale e risponde: «Arrivo». Stop.
Un motoscafo percorre a mare aperto una direttrice che punta dritta a un isolotto. È Lisca Bianca, sull’arcipelago delle Eolie in Sicilia, anzi no, pardon, è Michelangelo Antonioni, o meglio è un inseguimento. Così che anche l’immagine apparentemente più comune, quasi turistica, il blu del mare in una pasta densa poco più di quella del cielo, quella pasta delle cassette a nastro, diventa immediatamente un reticolo colmo di sovraimpressioni e cinematografie. Come quando un giovanissimo Mario Martone si presenta con una rosa bianca al compleanno della piccola Martina a casa di Nennella ed Enrico. La stessa casa in cui qualche anno dopo proprio Martina suonerà al pianoforte davanti a un pubblico di amiche. «Mi ha intenerito», dice Enrico, rivedendola. E ri-vedere «è il nocciolo duro di questa cosa», commenteremo di lì a poco. Quasi una dichiarazione programmatica la cui eco si propaga in trent’anni di ricerche, pratiche e conversazioni. Dopotutto basta fare un salto, è sempre un salto, uno sgancio, epigenesi di una bolla in un bollire, la cassetta si fa più piccola, le testine adesso registrano, sempre su nastro, stringhe di algoritmi digitali, e dall’altra parte dell’obiettivo il filosofo Emanuele Severino, in un dialogare su origine e fine, sopraggiungere degli eterni, spirito di conservazione, volontà di potenza e After Life, ascolta il succo di quel nocciolo dallo stesso Ghezzi: «Non si pensa adeguatamente la frattura vera che porta il cinema nella storia, quella che siamo abituati a pensare come storia dell’umanità o del mondo, il cinema è il primo momento in cui il mondo si rivede. Poi sappiamo che è finto, che è un trucco, che sono fotogrammi singoli, ma mentre la fotografia è un istante ghiacciato, col cinema rivediamo un cavallo, il mondo si rivede e questo di per sé è un avverarsi che non si pensa, ma è un pensare… È un piccolo sistema, meccanico, banale, semplice, corruttibile, però è sufficiente a produrre un rivedersi del mondo che di per sé è immediatamente nietzschiano, circolare». Che tutto ciò accada, avvenga, emerga, durante lo sbobinare di centinaia di ore di cassette il cui destino di necessità adesso solletica una forma, non è solo singolare, è pure avvincente.
Così un elicottero si alza in volo, una ricognizione aerea torna sul Mediterraneo, c’è anche Ciro Giorgini con una handycam, c’è Helene, c’è il pilota e rivedendo attendiamo trepidanti davanti al monitor quel momento in cui il pilota libera la cloche per scherzo, l’elicottero per un istante si fa corpo morto nel vuoto e la paura coglie i presenti. Ma è un ricordo di Enrico che in archivio è presente soltanto con un ooooohhhhhhhhhh senza che l’immagine riesca davvero a precipitare. Ricordo di una sensazione che è stato per un momento il finale migliore per questo film, un cadere nel fuoco. Ma la sconfinata occasione di un archivio ha in sé il moto degli arti di un volatile, una costante definizione di apertura, così sul monitor accanto, una luce calda, rossa, a tratti hard, incastona Michael Cimino in sembianze quasi femminili all’interno di una composizione di frutta e fiori, segnata sul bordo dell’inquadratura da una brocca di vino dietro la quale si nasconde Alberto Barbera, fautore dell’incontro in un ristorante di Torino, in cui il convitato di pietra, la videocamera sulla tavola, diventa infine oggetto di animata discussione. Cut. Cut. Cut.
Tra le decine di autoriflessi parlanti, in camere d’albergo sempre rinnovate, Enrico racconta di quell’attitudine di Amir Naderi a tagliare, foss’anche una conversazione, con il verso cinematografico: Cut! Così, lungo lo scorrere di un nastro, il rapidissimo apparire del grande sorriso, a valle di una enorme fronte, del regista iraniano, pare tenere precisamente fede al racconto. Siamo a Venezia, di lì a poco Marco Melani inizierà a filmare sui tavoli esterni dell’Hotel des Bains una lunga chiacchierata con Philippe Garrel. Venezia è un luogo topico, quasi una costante. «Ciao Quentin!», si sente gridare mentre la camera si avvicina ad un approdo – e dalla gondola a motore esce fuori Tarantino che pollice in su, all’americana, e mani festanti, ricambia il saluto.
Si fa sera, le acque nere della laguna sono schiarite da una delle lune colme registrate nel tempo. Il vaporetto ferma all’ingresso di un hotel. «La cena De Oliveira? In terrazzo». Per raggiungerlo si passa attraverso un lungo corridoio adornato da quadri che ritraggono la Serenissima in modo ombroso. D’un tratto un piccione invade la scena e la camera inizia a seguirlo tra colonnati e saloni dell’hotel. «È magnifico», dice Enrico. «Ti aggiungi a noi?», fa un’altra voce. È Paulo Branco, che come un cicerone dai larghi baffi e i modi cortesi rivedremo in altre cene eleganti al lido. Come quella in cui Catherine Deneuve fulmina, di mestiere, con uno sguardo, l’obiettivo che la filma, e allora la camera si sposta, traversando tavoli, celebrità e mostri per arrivare a incontrare John Malkovich con il quale si imbastisce in fretta una conversazione su Tonino De Bernardi. Lo abbiamo già visto De Bernardi, manovrava una cinepresa dirigendo un clarinettista e le sorelle Bonaiuto sul set di Piccoli orrori a casa Ghezzi, un momento che ci regala forse il più bel primo piano tra centinaia di ore, quello di Silvia Bonaiuto, Nennella. Frattanto in Sala Grande, la speaker della 63esima Mostra del cinema di Venezia annuncia in concorso l’ultimo film di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, ma loro non ci sono, per posizione, e gli applausi vanno, in uno scrosciante piano sequenza, agli attori di Quei loro incontri. Passano rapidi, col suono plastico e stridulo dell’avanzamento veloce del nastro in moviola le scene, le situazioni, i personaggi, i momenti, i luoghi: Tarr Béla, Wenders Wim, Papo Paolo, Trento, Latisana, Berlino, Parigi, Bergamo, Olmi Ermanno, Pozzi Moana, Emmer Luciano, Schifano Mario, Sydney, Bangkok, Taormina, Cannes.
Pausa.
Adelchi Ghezzi appena nato, in braccio alla madre, in un notturno sibilato, ascolta John Coltrane. Forward rapido, again. Bertolucci Bernardo, Tyler Liv, Houellebecq Michel, Milano, Villa Simius, Bellaria, Torino, Derrida Jacques, Žižek Slavoj, Pitt Michael, Green Eva, Garrel Louis, Londra, Bruxelles, Carpenter John, Argento Dario, Bressane Julio, Roma, Genova, Napoli, Ferrara Abel.
Play.
Si fermano sospesi, su di una funivia, penzolanti sui crateri inattivi dell’Etna. Lo zolfo giallo stratificato tra lave nere fa da sfondo ad Aura in mezzo al cielo che imbronza la cabina: «Il mio babbo pensa solo alla sua camera», dice. E viene da pensare a quanto si legge in Paura e Desiderio: “L’ultima volta che vedremo L’Atalantedi Jean Vigo forse ci renderemo conto che è l’ultima, un attimo prima di morire, ma ormai avremo il sospetto che la vita come il film/nastro si’riavvolgerà e svolgerà ancora […]. Se il cinema, anche in queste piccole ‘cassette’, non sia già il futuro/passato dell’uomo stesso e del mondo. Se il superamento della ‘cosa’ da filmare, nell’immagine sintetica, non sintetizzi il non-luogo e il non-tempo, in cui vive l’immagine. Se la mutazione di essa non sia proprio quella ‘cosa’ anche virtuale che ci affascina e ci spinge a guardarla, a ‘sentirci’ mentre la guardiamo, e che resta fin dall’inizio, e alla fine anche nella copia video più invisibile e sgranata e squartata. Forse, di fronte a questo (poter) ‘esserci già’, aveva ragione meno di cent’anni fa Lumière a definire il cinema un’invenzione senza futuro”.
Franco Battiato, nel suo studio siciliano, con in testa un fez porpora e l’entusiasmo del fanciullo alle prese col giocattolo nuovo, intona, a chitarra elettrica spianata: «Soli si muore, senza l’amore. Soli si muore, senza l’amore».
Ecco che si sentono farsi canto Gli Ultimi Giorni dell’Umanità.
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