Il governo ad interim di Michel Temer, subentrato alla presidenza del Brasile dopo la sospensione della presidente Dilma Rousseff in seguito all’approvazione della richiesta di impeachment da parte del parlamento, ha subito mostrato la miscela di conservatorismo e austerità con cui ha intenzione di dirigere il paese. Sul versante economico ha annunciato un tetto per ridurre la spesa pubblica, tagliando i fondi per la sanità e l’educazione; e il blocco dei sussidi per i programmi di assistenza sociale. Scegliendo di ridurre i ministeri ha optato per l’eliminazione di quelli della Cultura, dell’Uguaglianza Razziale, dei Diritti Umani e delle Donne; e non c’è traccia di alcun esponente nero né di una donna nella sua squadra di governo. Da un punto di vista anche meramente simbolico, ciò è molto significativo per un paese in cui razzismo e maschilismo costituiscono una tragica realtà quotidiana. La notizia di questi giorni di uno stupro collettivo da parte di trentatré uomini ai danni di una ragazza di sedici anni, a Rio de Janeiro, è soltanto l’ultimo brutale caso di una cultura che vede la donna solo come un corpo del quale poter disporre.
Le dichiarazioni di voto del 71,54% dei membri della Camera brasiliana, durante l’interminabile seduta straordinaria che ha approvato la richiesta di impeachment di Dilma – poi confermata circa un mese dopo anche dal Senato con il 67,9% dei voti –, costituiscono una cifra esemplare per comprendere l’apparato di potere subentrato al posto del governo del Partido dos Trabalhadores: «per la mia famiglia»;«per i miei figli»; «in nome di Dio»; «per il bene della nazione»; sono stati gli eloquenti refrain usati dalla maggioranza di coloro che hanno espresso il proprio assenso a procedere; e c’è stato persino chi ha avuto l’indecenza di motivare il proprio voto appellandosi «alla memoria del colonnello Brilhante Ustra», torturatore di Dilma quando da guerrigliera combatteva la dittatura militare.
L’erede di Lula, eletta per il suo secondo mandato nel 2014 con cinquantaquattro milioni di voti a favore, è accusata di aver truccato i conti dello stato attuando le cosiddette pedaladas fiscais, un crimine contro la Legge di Responsabilità Fiscale. Attraverso il ritardo nei pagamenti a banche pubbliche e private, e agli enti autonomi, nell’ordine di trentatré milioni di reais, il Tesoro migliorava artificialmente i conti pubblici presentando tutti i mesi spese minori di quelle effettive, ingannando così il mercato finanziario e ingrossando il debito pubblico. A sua difesa, Dilma afferma che tali manovre si sono rese necessarie per garantire il pagamento dei programmi di assistenza sociale. Inoltre, se si considera che la pratica è diffusa con frequenza e intensità anche maggiori dai tempi del governo liberale di Fernando Henrique Cardoso (che accumulò un ritardo di quattrocento e trentatré milioni di reais) ed è stata registrata anche con il governo Lula (con un ritardo di cinquecento milioni di reais), agli occhi di molti osservatori non sembra che possa ritenersi un motivo abbastanza valido per giustificare un impeachment. Per questo, non solo i sostenitori del PT, ma anche alcuni partiti dell’opposizione di sinistra come il PSOL, i movimenti sociali e molti analisti internazionali, affermano si sia trattato di un “golpe” politico contro un governo democraticamente eletto.
In effetti, al di là della legalità formale dell’impeachment, i motivi di un tale rivolgimento sono l’esito di una crisi interna alla classe politica che ha cominciato a manifestarsi già all’indomani delle elezioni del 2014. Sullo sfondo di una reazione poco efficace alla crisi economica senza precedenti che si è abbattuta sul Brasile – una crisi segnata da una forte inflazione, recessione, disoccupazione e aumento dei tassi d’interesse e di cambio dopo un decennio di forte crescita economica – e il conseguente calo di popolarità del governo, l’elemento determinante per intendere la tempesta che ha messo fine ai tredici anni di governo del PT (se nel termine dei centottanta giorni di sospensione saranno confermate le accuse a carico della presidente) sono le ripercussioni scatenate dall’operazione giudiziaria anti-corruzione Lava Jato.
La Lava Jato da circa due anni fa tremare l’intera classe politica brasiliana. L’investigazione, ispirata nei metodi alla Mani Pulite italiana, sta facendo emergere un capillare sistema di tangenti che dalle maggiori imprese statali e private giungevano ai politici di quasi tutti i partiti; con in testa il PT, i suoi ex alleati del PMDB e del PP, e il maggior partito all’opposizione, il PSDB. La più grande operazione anti-corruzione della storia del Brasile ha dato una scossa al paese determinando una potente indignazione popolare – che, nonostante le tante ambiguità e la strumentalizzazione che ne ha fatto la destra, si è espressa in diverse occasioni nelle strade delle maggiori città –, una forte frammentazione politica e una corsa al si salvi chi può. Così, si è creata una situazione per cui un parlamento di corrotti ha votato l’impeachment di una presidente ancora non investita di alcuna accusa in tal senso. L’impeachment è, insomma, l’esito di una lotta per la sopravvivenza di differenti gruppi politici e di differenti fazioni all’interno di essi, ognuno con il proprio coinvolgimento nella corruzione. Una lotta per il potere, nella misura in cui averne può offrire maggiori possibilità di sopravvivenza.
Dilma è stata sacrificata sull’altare del desiderio di impunità generale, colpevole di non essere riuscita a far nulla per bloccare gli sviluppi della Lava Jato. Come interpretare altrimenti la conversazione pubblicata sui maggiori quotidiani della settimana scorsa, che ha costretto Romero Jucá a dimettersi dal ruolo di ministro della pianificazione nel governo ad interim di Michel Temer? Jucá è tra i principali promotori della destituzione della presidente Dilma. In un dialogo risalente a marzo, Sérgio Machado, ex presidente della Transpetro, azienda sussidiaria della Petrobras, il colosso nazionale dell’energia brasiliana al centro dello scandalo della corruzione, esprime a Jucá il timore di finire in giudizio. Così, l’allora senatore del PMDB, anch’egli indagato, dice: «Bisogna risolvere questo casino. Bisogna cambiare il governo per fermare questo salasso»; e afferma che un eventuale governo Temer deve costruire un patto nazionale «con il Supremo (Tribunale Federale), con tutti» e «delimitare (le investigazioni) al punto in cui si trovano». In altre conversazioni registrate dallo stesso Machado e da lui consegnate poi alla giustizia – con l’accordo di “delazione premiata” che consente uno sconto di pena e i domiciliari –, emerge una frase emblematica. Nel rivolgersi a José Sarney, ex presidente della repubblica del PMDB, Machado afferma: «Presidente, sto molto male. La classe politica è alla fine. È un si salvi chi può. Su una nave dalla quale tutti vogliono scappare, tutti muoiono».
Arduo ipotizzare se davvero tutti moriranno o si ricicleranno; se l’esito della Lava Jato condurrà a una maggiore trasparenza e onestà nella condotta politica. Quel che è certo è che in tutta questa vicenda una grossa responsabilità è proprio del PT, il partito progressista che tante speranze aveva suscitato nel popolo e nella sinistra mondiale. Nessuno può negare che grazie alla sua azione siano giunte lodevoli conquiste – e su tutte l’emancipazione dalla fame per quaranta milioni di brasiliani –, ma una successione di errori politici, soprattutto negli ultimi anni, ne hanno provocato il collasso. Dall’alleanza con il PMDB che oggi lo pugnala alle spalle, a quella con i latifondisti esportatori di commodities, favorendo un progetto di sviluppo in stile coloniale che attacca violentemente l’ambiente e le popolazioni locali; fino alla sintonia con gli impresari per la creazione di faraoniche e inutili opere infrastrutturali e mega-eventi sportivi che impattano sull’intero tessuto urbano, soprattutto a scapito dei poveri.
Nonostante le giornate del giugno 2013 e l’occasione di ascoltare la strada che chiedeva un cambio di passo verso una radicalizzazione democratica e un modello sociale fatto di valori differenti da quelli di una mera inclusione fondata sui consumi, il governo del PT ha preferito una postura arroccata su posizioni di pragmatica governabilità. Eppure oggi, per affrontare la nuova alleanza tra conservatori e liberali e l’impasse della sinistra, una via d’uscita che vada oltre la falsa polarizzazione tra sostenitori dell’impeachment e denunciatori del golpe, probabilmente emergerà solo recuperando lo spirito del giugno 2013 e organizzando le forze critiche in un terzo campo post-PT. Verso “il terzo margine del fiume”, per riprendere in metafora il titolo di un vecchio racconto di Guimarães Rosa. (giuseppe orlandini)
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