
È uscito Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio (Il Galeone, 2021), raccolta di saggi curata da Sandro Moiso, per analizzare le contraddizioni e le potenzialità della geopolitica globale. Dalle rivolte del 2019-2020 in Cile, Catalogna, Stati Uniti e Francia, alle resistenze in Kurdistan, Messico e sud Italia, fino allo scontro tra interessi economici e comunità scatenato dalla crisi del Covid, e prima ancora dal “golpe” dell’industria digitale. Mostrando le connessioni tra le storie locali e settoriali, i contributi del libro ci aiutano ad affinare le armi teoriche per affrontare il presente. Come recita l’epigrafe del volume tratta da Errico Malatesta: “La rivolta minaccia ovunque: qui l’espressione di un’idea, là il risultato di un bisogno, più spesso la conseguenza dell’intrecciarsi dei bisogni e delle idee che si generano e si rafforzano reciprocamente”. Di seguito anticipiamo la prima parte dell’introduzione di Sandro Moiso.
Con testi di Raffaele Sciortino, Alessandro Peregalli, Susanna De Guio, Fabrizio Lorusso, Sara Montinaro, Giovanni Iozzoli, Marta Lotto, Nicolò Montinari, Enzo Names, Stefano Portelli, Fabio Ciabatti, Elena Papadia, Emilio Quadrelli, Jack Orlando, Sandro Moiso, Gioacchino Toni.
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A quasi centocinquant’anni dalla pubblicazione dell’opera di Karl Marx dedicata alla Comune di Parigi, la presente raccolta di saggi si pone il compito di indagare la possibilità che la categoria di guerra civile possa, nell’immediato futuro, costituire un elemento più adeguato per l’interpretazione di un insieme di contraddizioni sociali e di lotte manifestatesi a livello internazionale con una certa frequenza e intensità nel corso degli ultimi anni, la cui eterogeneità organizzativa e di scopi può difficilmente essere ancora rinchiusa soltanto all’interno della più tradizionale, e forse riduttiva, formula di lotta o guerra di classe.
Contraddizioni sul piano sociale, economico e ambientale agite da attori multipli, cui gli Stati, indipendentemente dalla loro collocazione geopolitica, hanno dato, quasi sempre, risposte di carattere repressivo e autoritario. Una situazione che, nonostante le sue contraddittorie manifestazioni, potrebbe essere foriera di una guerra civile globale destinata a ridefinire in maniera radicale, oppure a mantenere in modo sempre più autoritario, le forme di governo e di cre azione e distribuzione della ricchezza sociale che reggono gli attuali rapporti di produzione.
Anche se la riflessione sulla possibilità di una nuova guerra civile globale ha preso avvio a partire da alcune considerazioni svolte su Carmilla almeno da due anni a questa parte, l’idea di realizzare questo lavoro collettivo si è rafforzata proprio durante il periodo tutt’ora caratterizzato dalla pandemia da Covid-19 e dalle misure prese per contrastarla e superarla.
Nel frattempo, però, altre proteste accompagnate da drammatiche immagini di esecuzione a sangue freddo da parte della polizia, provenienti dagli Stati Uniti, hanno contribuito a far sì che l’idea stessa di guerra civile nelle società cosiddette avanzate dell’Occidente, che sicuramente ancora alcuni mesi or sono poteva apparire peregrina, nel corso delle settimane caratterizzate dalle manifestazioni di protesta avvenute negli Stati Uniti a seguito di tali omicidi di cittadini afro-americani da parte delle forze dell’ordine e dalle parole incendiarie rivolte da Trump contro i manifestanti e a favore dell’uso della forza (anche dell’esercito stesso) per ripristinare la legge e l’ordine (Law and Order) a ogni costo oppure ai proud boys con l’invito a “tenersi pronti”, tornasse vistosamente nei titoli degli organi di informazione, italiani e stranieri; appunto a proposito di una nuova guerra civile americana. Le cui conseguenze si sono potute cogliere pienamente con l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.
Almeno in parte, quegli eventi non costituiscono di per sé una novità assoluta per gli Stati Uniti, dove, come ha potuto affermare Ira Kratznelson: nessuna conquista ottenuta con le battaglie per i diritti civili degli afroamericani “nemmeno la presidenza di un afroamericano, ha rimosso le questioni di razza e cittadinanza dall’agenda politica. I dibattiti attuali su entrambi i punti ci ricordano chiaramente che i risultati positivi non sono garantiti. Le stesse regole del gioco democratico – elezioni, open media e rappresentanza politica – creano possibilità persistenti di demagogia razziale, paura ed esclusione”.
Ma questa totale assenza di garanzie di continuità per i diritti e le condizioni di vita già conquistati nel passato è proprio quella condizione, ampiamente confermata e diffusa in quasi tutti i paesi, sia in quelli considerati come modelli della democrazia occidentale che in quelli lontani da questa tradizione, che ha caratterizzato il nuovo ciclo di lotte cui si è prima accennato. È proprio questa tensione in direzione dello scontro, agita per ora principalmente dalle scelte politiche, legislative e repressive degli stati coinvolti, a rendere urgente una ricerca e una più ampia riflessione sulla possibilità di un conflitto sociale diffuso e allargato, paragonabile a una possibile guerra civile globale. Un possibile salto di paradigma radicale che richiede anche un cambiamento dei paradigmi interpretativi precedenti.
A partire, infatti, dalle crisi economiche degli ultimi decenni, e in particolare da quella ancora mai finita apertasi nel 2008, anche là dove le lotte e i conflitti sociali e sindacali sembravano aver garantito migliori condizioni di vita e lavoro nel ventennio compreso tra gli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, i margini della qualità della vita e della sua riproduzione sociale hanno iniziato, prima lentamente e successivamente in maniera sempre più rapida e significativa, a essere erosi, riportandoli indietro di decenni.
Se tale processo di erosione della qualità della riproduzione della specie umana ha potuto in un primo momento diffondersi in maniera meno sensibile per le società occidentali con i processi messi in atto dalla cosiddetta globalizzazione, successivamente i meccanismi di liberalizzazione dei mercati, dei commerci e dei contratti di lavoro hanno finito col manifestare, anche nei paesi più ricchi, il loro vero volto. Attraverso un percorso caratterizzato dalla sempre maggior concentrazione della ricchezza e dei mezzi di produzione in poche mani e dal contemporaneo impoverimento e peggioramento delle condizioni delle classi lavoratrici e dalla progressiva e rapida scomparsa delle classi medie.
Un percorso per molti anni ritenuto possibile soltanto nelle aree meno sviluppate del globo, che ha rimescolato anche le caratteristiche degli attori sociali coinvolti; in un contesto in cui frange di classe operaia prima garantita e poi impoverita, lavoratori autonomi e titolari di piccole o piccolissime imprese, lavoratori occasionali o migranti, disoccupati cronici e giovani senza molte prospettive occupazionali, hanno finito per trovarsi di volta in volta gli uni accanto agli altri oppure schierati su fronti opposti. In un contesto di disfacimento e ricomposizione delle classi coinvolte che sembra ormai essere in atto ovunque e non soltanto nei paesi occidentali (ex-) più ricchi.
In tutti i casi, però, le proteste e le lotte, che saranno più approfonditamente trattate nei saggi che seguono, sembrano scaturire da un malessere più profondo determinato da un apriorismo economicista per cui la concentrazione di ricchezza privata continua a far sì che il lavoro morto prevalga su quello vivo, soffocando la vita e le esigenze della specie, sia sul piano meramente fisico e ambientale che su quello psichico.
Dalle miliziane e dai miliziani curdi del Rojava che non vogliono vedere distrutto il loro esperimento di autogoverno che ha messo al centro di ogni iniziativa politica e militare la questione femminile, quella ambientale e quella di nuove forme di democrazia non basate sullo stato e sulla nazionalità, ai giovani e alle rivolte urbane che hanno agitato le città americane arrivando a chiedere il defunding delle forze di polizia; dai milioni di catalani scesi in piazza per le durissime condanne inflitte ai promotori del referendum indipendentista del 2017 e per ribadire la propria voglia di indipendenza e auto-organizzazione nei confronti di uno stato che fonda ancora le proprie radici nel fascismo franchista e in una monarchia ormai fuori dalla storia, ai popoli indigeni che lottano per la propria sopravvivenza e per quella della foresta amazzonica in Ecuador e Brasile e dalle proteste dei gilets jaunes e delle periferie francesi fino all’esplosione sociale di Santiago del Cile oppure alle proteste ambientali e territoriali di movimenti come quelli italiani No Tav e No Tap o della ZAD in Francia, sembra infatti levarsi, seppur talvolta sottotraccia, un unico urlo di rivolta che invita a farla finita con un sistema di sfruttamento della vita, nostra e delle altre specie, ormai insopportabile. Nessuna delle lotte appena elencate può rappresentare in sé e per sé un assoluto, ma il loro insieme, la loro simultaneità sempre più frequente e il richiamo che intercorre spesso tra l’una e l’altra ci aiutano nell’individuare un mosaico politico e sociale molto più complesso e radicale, anche se ancora estremamente disomogeneo, rispetto a quello che il vecchio immaginario di sinistra e le sue parole d’ordine semplificate ci avevano abituati nel secolo scorso.
I processi di espropriazione e impoverimento della maggioranza della popolazione, stanno oggi contribuendo a una gigantesca ricomposizione di classe che vede precipitare in un immenso proletariato tanto i milioni di rifugiati e profughi che migrano da un angolo all’altro del pianeta, in cerca di una sicurezza esistenziale ed economica che nessun governo intende realmente garantire loro, quanto le classi medie impaurite dell’Occidente, che nello slogan dei gilets jaunes – “Fine del mondo, fine del mese stessa cosa” – possono riconoscere una perfetta sintesi della loro situazione. Una situazione in cui proletariato e proletariato marginale, sottoproletariato, lavoratori salariati e piccoli borghesi declassati e impoveriti si confondono in continuazione grazie alla diffusione del lavoro precario, delle agenzie del lavoro e, soprattutto, del venir meno di qualsiasi garanzia economica e lavorativa.
L’elenco delle forme di organizzazione e delle richieste immediate messe in campo dal basso in ogni dove, potrebbe continuare a lungo, ma ciò che si rende necessario sottolineare è il fatto che tutte queste realtà si trovano di fronte a uno spazio di manovra e trattativa istituzionale sempre più ristretto o quasi nullo, poiché la risposta dei governi non è altra che quella legata all’intimidazione, alla repressione e al silenziamento, se non al massacro, dei movimenti e dei militanti che negli stessi sono coinvolti. Silenziamento e repressione ben temperati, che si avvalgono, a seconda della situazione, di armi e violenza oppure di ipocriti appelli alla condivisione di obiettivi comuni (tipo il Green New Deal o la mobilitazione nazionale contro il “virus”). Il tutto sempre più “garantito” da un diritto penale del nemico che dopo essere uscito dallo stretto recinto della lotta al terrorismo si è diffuso sempre più nell’uso giuridico comune, all’interno di un ordinamento democratico soltanto presunto che dopo aver fatto di tutto per cancellare la logica dell’amico/nemico da ogni considerazione politica di classe l’ha poi pesantemente ripresa e applicata nella valutazione e nella persecuzione dei reati, anche minori o insignificanti, collegati a qualsiasi forma di resistenza. Carcere, lager, morte, tortura e violenza non sono stati strumenti repressivi tipici soltanto del passato e dei regimi totalitari, ma sempre più sembrano esserlo nel presente, in ogni angolo d’Europa e del mondo. Miseria y represion come era scritto su uno striscione dei manifestanti cileni. Se a tutto ciò poi si aggiungono la crisi dei processi di globalizzazione che ha acuito e reso sempre più tormentati e conflittuali i tentativi di accaparramento di quote del mercato mondiale e delle risorse naturali totali messi in atto dalle maggiori potenze economiche e militari nei confronti dei propri concorrenti e a discapito anche dei propri alleati; la crisi degli stati nazionali e la richiesta di autonomia e indipendenza politica che ne consegue al loro interno; lo sviluppo dei partiti neo-populisti e il diffondersi del radicalismo islamico nelle periferie metropolitane come forma di organizzazione e contenimento della rabbia sociale; la crisi di governance statunitense del mondo a partire dalla fine degli anni Novanta, quando il trionfo sul socialismo reale iniziò a rivelarsi come un’autentica vittoria di Pirro; la drammatica situazione di emergenza climatica e ambientale venutasi a creare negli ultimi decenni e last but not least l’esplodere della pandemia che ha colpito duramente, sia dal punto di vista della salute che del lavoro i settori più deboli o in corso di indebolimento della società, il quadro diventa ancor più complesso e drammatico.
In gioco nelle lotte odierne non sembrano essere soltanto questo o quell’altro aspetto dell’ordine esistente, ma il futuro di un intero modo di produzione e le conseguenze della sua attuale ingovernabilità. Tale ingovernabilità e incertezza sul futuro trova le sue espressioni più significative nella messa in discussione, per ora parziale e limitata ma destinata ad allargarsi, delle verità/mondo (sviluppo, progresso, proprietà privata, lavoro, profitto) che da sempre sostengono un modo di produzione attraverso la loro diffusione nell’immaginario collettivo; nella competizione politica sempre più marcata tra soggetti sociali ed economici differenti a livello nazionale e politico-militare tra stati e imperialismi vecchi e nuovi a livello internazionale e nella impossibilità di porre efficacemente rimedio al un disastro climatico e ambientale, di cui la pandemia attuale è soltanto una delle ultime e tante espressioni.
Ecco dunque le ragioni per cui, oggi, può rendersi necessario parlare di guerra civile globale, poiché l’obiettivo ultimo di questo scontro può essere costituito soltanto dal mantenimento autoritario oppure dal completo superamento, attraverso un autentico cambio di paradigma, dell’ordine sociale, economico, politico ed esistenziale presente. Una guerra in cui lo scontro sul piano dell’immaginario politico e culturale sarà tutt’altro che secondario e potrà svolgere invece un ruolo determinante ai fini della vittoria dell’una o l’altra fazione. Ed è proprio per quest’ultimo motivo che può essere utile soffermarsi sul significato da attribuire, nel contesto attuale, al concetto di guerra civile.
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