All’inizio dello scorso autunno i disoccupati organizzati del movimento 7 Novembre avevano proclamato una manifestazione a Napoli in risposta al crescente livello di repressione di cui è oggetto il movimento, in particolare le indagini per associazione a delinquere aperte nei confronti di alcuni dei suoi rappresentanti.
La manifestazione – prevista per questo sabato, 13 novembre, con partenza alle ore 14 da piazza Garibaldi – ha raccolto la solidarietà di altri gruppi e soggetti in tutto il paese, trasformandosi in un corteo nazionale che affianca alle storiche richieste dei disoccupati (garanzia di un salario per chi è licenziato o disoccupato, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, piano straordinario dei lavori di pubblica utilità), tra le altre, la protesta contro l’uso politico della crisi sanitaria da parte del governo e di Confindustria, contro gli aumenti indiscriminati delle utenze, per un calmieramento degli affitti e per un blocco immediato degli sfratti. La manifestazione, inoltre, rischia di svolgersi in un clima particolarmente teso a causa del recente divieto, da parte del ministero dell’interno, di svolgere cortei durante i fine settimana nei perimetri dei centri storici.
Proponiamo a seguire una serie di interviste a esponenti del Movimento Disoccupati 7 Novembre che abbiamo effettuato nel corso dell’ultimo anno e mezzo e che sono pubblicate nel numero appena uscito de Lo stato delle città (qui indice e distribuzione).
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Quasi ogni giorno a Napoli, da sette anni, c’è un gruppo che conta tra le cinquanta e le duecento persone a manifestare in strada e sotto i palazzi del potere. Le loro parole d’ordine sono chiare e dirette. Gli slogan che intonano, gli striscioni che portano in piazza sembrano appartenere a qualche decennio fa. Il Movimento Disoccupati 7 Novembre non rinnega l’eredità dei disoccupati organizzati, seppure in un contesto mutato rispetto a quaranta o anche solo venticinque anni fa, quando le lotte per il lavoro portavano in strada migliaia di persone. Abbiamo scelto di raccontare il Movimento attraverso una serie di interviste effettuate nell’ultimo anno e mezzo a persone con diversi ruoli, competenze, prospettive, ma un unico obiettivo.
Eduardo è un trentenne tra i fondatori dei Disoccupati 7 Novembre. Da adolescente ha partecipato alle lotte per la riqualificazione dell’area industriale del suo quartiere, Bagnoli. Ha fatto parte di un collettivo prima studentesco e poi territoriale di nome Iskra ed è un sindacalista del SiCobas. Un anno fa il suo volto è rimbalzato sui social network e sugli schermi televisivi per un duro faccia a faccia con il governatore della Campania De Luca, apparso in quella circostanza molto nervoso, tanto da dover alzare ripetutamente la voce per affermare le sue ragioni. Ho intervistato Eddy nella sede del SiCobas, nei pressi della stazione centrale di Napoli, mentre il suo cellulare, appoggiato sul tavolo in modalità “silenzioso”, continuava a ricevere freneticamente telefonate e messaggi.
«L’idea dei disoccupati era nata già prima del 2014, ci avevamo provato prima con il Movimento Disoccupati Flegrei e poi con uno sportello nello spazio occupato di Villa Medusa a Bagnoli. Qualcuno venne, ma noi non eravamo ancora pronti. Non è solo questione di tempo, una lotta così ti cambia la concezione della vita, significa mettere in discussione tutto, c’è un livello di repressione diverso. Se non la vivi con una prospettiva politica rimane solo la vertenza, sicuramente dignitosa ma limitata.
«Il 7 novembre 2014 ci fu una grossa manifestazione a Bagnoli, in occasione della visita del primo ministro Renzi a Città della Scienza. Nell’agosto precedente il comune di Napoli aveva firmato con il governo un pessimo accordo su Bagnoli, con cui faceva marcia indietro su quasi tutto. Quell’accordo per noi rappresentava il presupposto per il commissariamento dell’area. All’epoca Renzi aveva il quaranta per cento dei consensi, e fino a poche settimane prima tanti compagni dicevano che non c’erano le condizioni per costruire una manifestazione nazionale. Poi ci fu lo Sblocca Italia e Renzi annunciò che sarebbe venuto il 7 novembre a Napoli. In poco tempo il clima si fece molto più acceso. Avevamo girato il paese con il “No Sblocca Italia” e tre giorni prima Renzi annunciò che non sarebbe venuto. Il nostro obiettivo restava la firma simbolica di un altro accordo su Bagnoli, durante l’evento che si svolse comunque a Città della Scienza. A Bagnoli quel giorno arrivarono cinquemila persone. La questura ci comunicò che potevamo entrare in delegazione ma poi ci bloccarono e ci furono scontri lunghissimi. Io finii in ospedale, con gli infermieri che non facevano entrare la Digos che voleva identificarmi…
«Poco prima del 7 novembre avevamo aperto uno sportello con disoccupati del rione Traiano e di Bagnoli. Decidemmo di insistere con il pezzo più delicato di quella piazza, che subiva il ricatto tra morire di fame e morire di malattie perché il territorio è ancora inquinato a trent’anni dalla chiusura dell’Italsider. Prima degli scontri ero ancora convinto che i disoccupati, padri di famiglia, si sarebbero tirati indietro, invece furono tutti in prima linea. Dopo quella giornata, “7 Novembre” diventò la nostra sigla e si cominciò a lavorare in maniera più determinata. Il rapporto con il rione Traiano cresceva, un po’ per il passaparola tra i disoccupati, un po’ grazie al lavoro fatto per ottenere “verità e giustizia” dopo l’uccisione di Davide Bifolco, un sedicenne sparato da un carabiniere in servizio nel rione. In pochi mesi facemmo una serie di iniziative che ebbero visibilità su Cronache di Napolie sul Roma, che sono i giornali che i proletari leggono. E poi si rafforzò il rapporto con alcune strutture che ci aiutarono ad aprire sportelli, per esempio a Scampia e nel centro storico.
«Oggi abbiamo circa trecento iscritti. Avremmo potuto continuare ad aprire sportelli, ma abbiamo preferito non farlo, perché non saremmo stati in grado di dare una prospettiva. Avremmo dovuto dire a un bel po’ di gente: “Vieni e poi si vedrà, perché deve entrare prima quello che sta da più tempo”. E questo ragionamento non ci piace. O tutti o nessuno.
«La composizione è varia: ci sono molti sottoproletari, una parte dei quali viene anche da un passato di piccola o grande illegalità ed è alla prova per verificare se ci sia un’altra strada. Poi ci sono quelli che hanno conosciuto sempre e solo il lavoro nelle sue forme irregolari. E poi una serie di ragazzi più giovani che hanno deciso di intraprendere un percorso di lotta con il cuore “più leggero” rispetto a chi ha cinquanta o sessant’anni.
«Fin dall’inizio abbiamo insistito sul fatto che non si tratta di una questione di numeri ma di proposte, anche perché oggi la strada delle assunzioni al comune di Napoli non è praticabile. Bisognava creare un nucleo che proponesse un progetto. Pur rimanendo nella tradizione del movimento – quindi autonomia dalle istituzioni, gli sportelli, le scadenze di piazza, le presenze, le parole d’ordine come “lavorare tutti, lavorare meno”, “salario minimo garantito”, “riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario” – sapevamo di dover fare i conti con una giunta comunale inconcludente e con un governo regionale che non voleva saperne di liste di lotta e cose del genere. Nonostante le poche prospettive, però, col tempo è arrivata la dimostrazione che in qualche modo la lotta paga ancora, tanto che sono stati fatti i primi verbali “per la platea specifica”, quindi siamo stati riconosciuti nei fatti.
«Le proposte sono state tante, anche con il rischio di sostituirci alle istituzioni. Abbiamo fatto progetti, individuato risorse e poi su quella base organizzato le iniziative di lotta, perlopiù chiedendo un tavolo Ministero-Regione-Comune per fargli assumere le loro responsabilità, in particolare alla Regione che ha il compito di programmare le risorse europee, quattordici milioni di fondi per le politiche attive sul lavoro e per progetti di pubblica utilità.
«Funziona così: la Regione dice al Comune, e alla città, quali sono le risorse a disposizione e su quali tematiche, il Comune valuta le priorità ed elabora un progetto. Nel nostro caso, entrambi gli attori si sono rivelati poco credibili. Noi abbiamo proposto una rete per la raccolta di eccedenze alimentari della grande distribuzione, oppure per riaprire e manutenere alcune chiese chiuse, sposando anche una critica del modello turistico concentrato solo su quattro o cinque strade nel centro storico.
«Da un punto di vista politico abbiamo scontato l’appiattimento dei movimenti cittadini sulle posizioni dell’amministrazione de Magistris. Per De Luca e per il Pd tutto quello che succedeva in strada contro di loro era legato al sindaco, anche se noi ogni giorno avevamo compagni arrestati per i presidi e le manifestazioni contro il Comune. Nonostante questo, con la lotta abbiamo strappato verbali firmati da assessori comunali e regionali, gente che non si parlava da anni, assessori che firmavano proposte su progetti proposti interamente da noi… Alla fine però, almeno in due o tre occasioni, ci hanno scaricati all’improvviso. Forse perché noi non siamo rimasti a casa, continuavamo a fare casino, e gli attori istituzionali questa cosa non la digeriscono. Mentre aspetti che le loro promesse si realizzano, devi “comportarti bene”, altrimenti diventi una mina vagante…».
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Maria è una signora di mezza età, i capelli biondi e gli occhi azzurri, i modi gentili. La incontro a margine di un’assemblea alla Mensa Occupata, centro sociale di via Mezzocannone, in vista dello sciopero generale dell’11 ottobre 2021. Sono presenti quasi tutti i disoccupati iscritti.
Maria è seduta alla scrivania vicino l’impianto di amplificazione, annota e poi invita al microfono chi si iscrive a parlare. Qualche giorno prima l’avevo vista tenere testa, senza perdere la calma, a un ispettore della Digos che insisteva perché un gruppetto di disoccupati scendesse dall’impalcatura su cui si erano arrampicati per chiedere di convocare un tavolo per la risoluzione della loro vertenza.
«I due percorsi su cui abbiamo investito in questi anni e su cui siamo stati “traditi” dalle istituzioni sono stati quello sulle eccedenze alimentari e sulla riapertura di alcune chiese. Il primo progetto prevedeva la raccolta nei supermercati e il trasporto di questi prodotti in scadenza ai centri di smistamento, alle municipalità, alle mense. Era un progetto “politico”, interveniva sulla lotta allo spreco, oggi parlano tutti delle tonnellate di alimenti eccedenti che potrebbero essere utilizzati nella lotta alla povertà. Facemmo firmare dei verbali e si fece un bando. Era un bando di evidenza pubblica, ma avevamo trovato cooperative e consorzi che ci avrebbero donato la personalità giuridica per partecipare. Inoltre avevamo ottenuto che il bando contenesse dei requisiti “sociali”. Nonostante le rassicurazioni, però, la Regione inserì dei requisiti fatti apposta per escluderci: si erano rubati il progetto e ci avevano tagliato fuori.
«Il secondo progetto prevedeva la riapertura e la gestione di oltre trenta chiese su tutto il territorio cittadino, siti culturali sottoutilizzati o non utilizzati. I disoccupati avrebbero dovuto fare apertura, chiusura, manutenzione ordinaria e accoglienza. Con l’impegno della Curia si poteva allargare il campo, estendendolo a tutta la provincia. Il tira e molla è durato due anni, poi ci hanno chiuso la porta in faccia all’ultimo minuto. Eravamo pronti, stavamo per fare le divise per i lavoratori, de Magistris qualche giorno prima ci aveva detto: “State tranquilli che questo Natale lo festeggiate con il panettone”. Invece poi venne fuori un bando completamente diverso dal progetto che avevamo presentato e anche la Curia si rimangiò la parola data. Nel bando dovevano essere previsti dei premi per chi assumeva disoccupati di lunga durata, ma questa clausola è stata eliminata e il bando l’ha vinto un’azienda che ha fatto tutta un’altra cosa, addirittura la vigilanza armata.
«Il centro della nostra battaglia è la lotta. Tutto è ottenuto attraverso la lotta. Ma allo stesso tempo in questi anni abbiamo fatto un lavoro tecnico: abbiamo imparato a scrivere i progetti, abbiamo costruito una rete di persone che ci potesse aiutare in questo. Io sono iscritta da cinque anni al Movimento e ho vissuto tutte e due queste delusioni. Così ti senti ancora più ferito, anche perché poi con quelle stesse persone devi tornare a incontrarti due mesi dopo magari, quando si apre un’altra vertenza.
«La battaglia attuale è per far riconoscere le risorse che abbiamo messo in campo per la manutenzione delle spiagge pubbliche. Avremo un attestato spendibile nel momento in cui uscirà qualche progetto in quel settore, anche perché in città c’è un bisogno di manodopera ordinaria enorme, pensiamo ai giardini non curati, ai parchi chiusi. Le istituzioni si sono sempre nascoste dietro la mancanza dei soldi, ora però arrivano i soldi del Recovery Fund, bisogna monitorare e incalzarli.
«Io sono nata al corso Vittorio Emanuele, ho vissuto tanti anni a Soccavo e ora vivo all’Arenella in un palazzo di cui mio marito è portiere. Nella vita ho fatto tutti i lavori, la cameriera, la commessa, la baby-sitter, la segretaria. Ho lavorato per dieci anni con una famiglia, poi dalla sera alla mattina sono stata licenziata, mi è stato detto che “non ero più necessaria”. Da ragazza ho fatto esperienza politica nelle sezioni del Pci, mi ci portava mio padre che era un iscritto di lungo corso. Per un lungo periodo non sono stata attiva, dovevo crescere i figli, poi dopo il mio licenziamento mio figlio, che era già nel Movimento, mi ha chiesto di partecipare. Ho imparato come ci si muove a livello istituzionale, come si sta in un tavolo di concertazione, ho visto che potevo essere utile e mi sono presa qualche responsabilità, così come ti prendi le denunce, una dopo l’altra. I decreti sicurezza hanno dato una mazzata enorme. Noi abbiamo tre avvocati che si occupano di queste situazioni.
«Oggi la lotta è cambiata, non vai più a rivendicare il lavoro, devi per forza portare un progetto, trovarti degli alleati. Noi cerchiamo il contatto con chi lavora in fabbrica, con gli studenti, ma non è facile farlo capire a tutti gli iscritti, però abbiamo imparato a coinvolgerli».
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Incontro Raffaele sulla spiaggia di San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli. Sullo sfondo il museo di Pietrarsa, fabbrica borbonica di locomotive che ha smesso di funzionare nel 1975, ma non siamo lontani neppure dall’area industriale dove sorgeva la Cirio, il più grande stabilimento conserviero del Mediterraneo.
Raffaele coordina un gruppo di cinque disoccupati che puliscono la spiaggia. Indossano una casacca arancione con sopra il logo del comune di Napoli e ben in evidenza la scritta: VOLONTARI. «Noi non la sopportiamo quest’espressione – mi dice Raffaele – perché il lavoro è lavoro, e il volontariato è n’ata cosa. Ma quest’operazione rientra in una vertenza fatta con il Comune, per cui alla fine saremo riconosciuti idonei se dovesse sbloccarsi un progetto». Alla fine del turno, restiamo a parlare davanti al mare e alle barche dei pescatori rientrati qualche momento prima.
«Dovevamo fare questa operazione sulle spiagge l’anno scorso, ma il Comune si rifiutava di rilasciarci un attestato, poi a furia di martellare hanno ceduto. Abbiamo fatto due mesi di “volontariato” su otto spiagge del litorale cittadino, ora aspettiamo l’attestato. Qui ci vengono tante persone, ma è pure un posto di pescatori, anche se oggi con la pesca non si guadagna molto. Chi pesca porta il pesce ai ristoranti, alle pescherie, poi a un certo punto il mare comincia ad agitarsi e se ne riparla in primavera. A me non piace questa vita, qualche volta ho accompagnato gli amici, ma vivono male. Ormai lavorano quasi solo i pescherecci, prima tenevano anche dieci persone a bordo, ora ne tengono la metà.
«Le spiagge stanno rovinate. I lavoratori comunali qui sono quattro, ma fanno due o tre ore al giorno e poi se ne vanno. Sono vecchi, c’è bisogno di ricambio, ma il Comune dice che non può assumere. Noi ci siamo divisi, un turno ogni dodici giorni, dalle tre alle sei del pomeriggio. Puliamo le spiagge, mettiamo i bidoni e i sacchettoni in vari punti, anche se la gente non collabora, dell’ambiente nessuno se ne frega. In quest’occasione abbiamo dovuto levare una trentina di persone dalle liste: si erano iscritte ma non hanno mai messo piede sulla spiaggia. Abbiamo pensato che era meglio essere di meno ma avere gente più combattiva.
«Io sono nato qui, a pochi metri da questa spiaggia. È un posto che non è mai stato curato. Tra giugno e settembre vengono migliaia di persone, questo è il mare per tutta la zona est. Quand’ero ragazzo lavoravo. Sono stato commesso al Rettifilo, poi facchino alla Tnt di Teverola. Otto anni fa ho preso venticinquemila euro di buonuscita e me ne sono andato. I turni erano diventati massacranti. Hanno mandato via cinquanta persone. Secondo loro dovevo fare due ore di mattina, finire alle dieci, coricarmi in macchina e riattaccare alle quattro o alle cinque di pomeriggio. Ma era solo un modo per costringere la gente ad andare via, infatti poi ci hanno pagati per andarcene.
«Dopo un po’, un amico sindacalista del SiCobas mi ha consigliato di iscrivermi ai disoccupati. Il SiCobas è un sindacato vero, ho girato l’Italia appresso a loro. Prima non sapevo nemmeno cos’era un picchetto, i sindacati a Teverola non facevano nulla. Ci stava la Cgil, che ci voleva convincere ad andarcene per cinquemila euro… Le persone di colore nelle fabbriche stanno tutte col SiCobas e noi vedevamo che questi per ogni cosa rompevano le palle. Così siamo passati tutti con loro, a Teverola abbiamo fatto cinque giorni di picchetto e abbiamo aperto la trattativa.
«Sono stato uno dei primi a iscrivermi al Movimento. Da San Giovanni ho portato alcune persone, ma non è facile durare, “il cavallo buono si vede sulla corsa lunga”, si dice a Napoli. Abbiamo cominciato che eravamo trenta, siamo cresciuti nonostante un paio di delusioni. Alcune persone grandi di età, che avevano investito in quel percorso, non era facile trattenerle.
«Quando sono venuti i candidati gli abbiamo detto chiaramente che non “portavamo” a nessuno, la bandiera nostra è quella dei 7 Novembre. Chi sale, dovrà mantenere gli impegni e pensare ai disoccupati. In questi anni siamo stati conflittuali con tutti, De Luca ci vede come il fumo negli occhi. Bisogna spiegare ai più giovani che la politica fa solo promesse, c’è qualcuno che crede alle favole e può pensare “vabbuò mettiamoci dietro a questo che ci fa pigliare il posto”. Però poi capiscono. Per questo si deve fare un percorso. Io all’inizio dicevo: “Ma che vonn’, loro e le assemblee!”. Invece si devono fare, per capire come funzionano le cose. Così sono nati i vari Antonio, Maria, Michele della Sanità, abbiamo capito che bisognava essere in tanti, perché se bloccano a uno non può saltare tutto il Movimento».
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Intervisto Michele e Salvatore a Bagnoli, nella Casa del popolo “Villa Medusa”, una piovosa mattina d’inizio estate. Michele e Salvatore hanno contribuito all’apertura di uno sportello del Movimento al Rione Sanità, che tra i vari servizi offre anche la consulenza legale.
Michele e Salvatore sono grandi amici e i loro caratteri quasi si completano. Il primo estroverso, capace di parlare in pubblico, l’altro più chiuso, ma con una grande attitudine a coinvolgere le persone, protagonista di un lavoro di reclutamento di tantissimi disoccupati nel centro, a Montesanto e poi alla Sanità. È la prima estate “sotto pandemia”, la situazione nei quartieri popolari è disastrosa e il Movimento ha contribuito a costruire una rete per fornire supporto alle famiglie in difficoltà.
M: «Mi chiamo Michele, sono nato alla Sanità nel 1972 in una famiglia con sei figli e mi sono sposato a ventidue anni. Papà era un rappresentante di biancheria intima, nato durante la guerra. Ho fatto la gavetta come odontotecnico, ma non si guadagnava e così mi sono messo a fare altro. Ho lavorato nel campo orafo, poi ho aperto un bar ma con la crisi del 2008 abbiamo dovuto chiudere. Da allora ho fatto mille mestieri, il venditore soprattutto, ma senza avere un’occupazione fissa. La mia prima figlia dopo il liceo stava lavorando in studi estetici, ora mi ha appena fatto diventare nonno. La seconda, dopo il diploma è stata assunta in una farmacia. Ho conosciuto il movimento dei disoccupati un paio d’anni fa, grazie a Salvatore, amico di vecchia data. Vengo da una famiglia di comunisti, mio padre è stato iscritto al Pci, mio nonno era anarchico, quindi un po’ di istinto per la lotta politica ce l’avevo già».
S: «Sono nato alla Sanità e ho sempre vissuto lì. Ho lavorato in fabbrica, alla Tnt a Teverola e a Gianturco. Ero “padroncino”, avevo il furgone di proprietà. Ho lavorato quattordici anni lì. Poi ho avuto un problema con la cocaina e ho perso il lavoro, ho dovuto lasciare per andare in comunità. Dovevo fare trentasei mesi, ma con l’aiuto di Dio dopo tre mesi sono uscito volontariamente e oggi sono quattordici anni che non tocco più droga.
«Quando me ne sono andato dalla Tnt la situazione è diventata un po’ tesa. Ho lavorato un po’ nei detersivi con mia sorella che ha un negozio, ma non mi piaceva e ho lasciato. Nel Movimento ci sto da tre anni, ci sono entrato tramite mio fratello. Per due anni non ho seguito perché ero in Russia, la mia fidanzata è russa, ci siamo conosciuti qua, poi siamo stati per un periodo da lei. Quando sono tornato il Movimento mi ha “riaccolto”. Mi ricordo che quando chiamai Eddy per dirgli che ero tornato, lo avevano arrestato per uno sciopero. Stava in questura e non poteva parlare. Uscì a mezzanotte e il primo pensiero fu di telefonarmi. Mi disse che la situazione si era fatta complicata, stavano arrivando denunce una dopo l’altra. Io gli spiegai che non mi importava e volevo tornare a tutti i costi. “Questo volevo sentire, vieni domani”, mi disse. Ed eccomi qua.
«In questi mesi ho portato più di trenta persone a iscriversi allo sportello di Montesanto, e da poco abbiamo occupato una sede alla Sanità. Molti sono ragazzi di strada, che oggi vogliono lasciare questa vita e si sono avvicinati a noi. Nel quartiere mi conoscono, se mi vedono nei disoccupati hanno fiducia».
M: «La platea è molto eterogenea, ci sono persone tra i diciotto e i sessant’anni, in molti lavoricchiano, ma tutti quelli che lo fanno sono sfruttati, vanno a lavorare per pochi spiccioli la settimana. La nostra filosofia è stata sempre quella di conquistarci le cose. Come è successo con la sede, un posto che era abbandonato e disastrato, dove sta l’isola ecologica del rione. L’abbiamo risanata e sistemata, ci abbiamo lavorato in cinquanta. Abbiamo dato la disponibilità per fare attività sociali per il quartiere, per i bambini… Nell’ultimo anno ho coinvolto mia moglie, così come tante altre donne. L’obiettivo è crescere continuamente, ma anche stare nei quartieri e dare delle risposte. Non abbiamo riferimenti politici, protestiamo contro tutte le istituzioni. Il problema dell’ordine pubblico si innesca quando lo vuole la politica, non la polizia, loro sono gli esecutori. Se io ti chiedo udienza e tu mi sballotti come una pallina di tennis avanti e indietro, io a un certo punto devo per forza fare casino».
S: «Oggi la lotta è la mia ragione di vita. Di lavorare me ne frega fino a un certo punto, io voglio lottare perché tutti quelli che stanno nel Movimento pigliano il posto, poi l’ultimo posto che esce è il mio. Nel Movimento scegliamo alcuni delegati che devono prendersi delle responsabilità e fare delle cose, attualmente sono una ventina. Alle riunioni partecipano quasi tutti gli iscritti, l’ultima grossa l’abbiamo fatta alla Sanità, quando abbiamo inaugurato lo sportello. Ma andiamo in vari posti, anche perché la platea viene da diversi quartieri: Sanità, Bagnoli, Soccavo, Montesanto, Scampia, piazza Garibaldi. Qualche tempo fa si sono avvicinati i fascisti alla sede alla Sanità, gente vicina a Casa Pound, uno di loro mi voleva allontanare dicendo che io stavo in mezzo ai comunisti, che la sede così andava a finire “in mano ai negri”. “Chi te lo fa fare, alla tua età, ti metti a tozzo con la polizia, con la Digos”. Io li presi di petto. Poi l’ho detto in giro: se qualcuno sbaglia e si avvicina alla sede con cattive intenzioni – non ti parlo solo di fascisti, ma pure di gente di mezzo alla strada – noi facciamo un bel corteo e andiamo direttamente sotto casa loro. Quando si è tanti ci si sente più forti». (riccardo rosa)
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