
Il suono metallico delle bocce che urtavano, le ingiurie dei giocatori provenienti dai campi sterrati di Petanque: quel posto a sud del vecchio porto e a ridosso della Bonne Mère si chiamava Endoume. Da quelle parti si trovava il bar dell’avvenire, e bastava entrarci per rendersi conto dell’inganno poiché in quel bar c’era un pezzo di mondo passato, poco e niente del futuro. Un amico in quella città senza nome diceva che certi bar erano i custodi dei vecchi quartieri e che i loro clienti rappresentavano dei testimoni, talvolta troppo ubriachi e molesti, ma almeno gli unici degni di ricordare, come quelli del Foyer du peuple a Menpenti. E quando quei bar chiudevano definitivamente significava che qualcosa stava cambiando, anche se qualcuno restava ancora aperto e dentro si continuava a servire il Momì il Casanis e il Pastagà e i clienti raccontavano vecchi aneddoti pronunciando termini di un linguaggio più o meno estinto. I quartieri lentamente si svuotavano, cambiava la loro immagine di facciata. Eppure a Endoume ce n’erano ancora di bar, almeno fino a qualche anno fa. L’avvenire non era ancora avvenuto.
Una partita di seconda divisione scorreva in televisione ma nessuno la guardava, la sala era affollata e il pavimento ricoperto di bucce di noccioline. Si discuteva di scommesse perdute. Netturbini, carpentieri e operai con i panni sporchi di stucco e di pittura scrutavano l’avventore mai visto prima. C’erano quelli che quando parlavano della loro isola ripetevano sempre la stessa storia di quel giorno in cui Dio gettò una pietra in mezzo al mare e decise di chiamarla Corsica. Alcune facce erano segnate dagli anni Ottanta della città irrorata di eroina, quella di Francis le Belge e di Jacky le Mat e dell’immagine stereotipata e dura intravista in alcuni capolavori di Melville e chiacchierata a dismisura nei romanzi Polar.
Uomini eleganti vezzeggiavano donne sfiorite coi capelli tinti e lo smalto rosso sulle unghie, al fianco di vecchi con gli anelli laccati in oro e le catenine in petto: i corsi, appunto, ancora loro. Il bar ricordava un po’ lo stile simile allo sfarzo appariscente dei bar sparsi per i paesi della provincia. Diverso però da quelli di transito appostati sui lunghi stradoni ad altezza di camionista, con l’insegna “colazioni” appesa all’esterno a indicare un’imposta di pane con la ventresca le melanzane sottolio e il provolone, nella peggiore delle ipotesi.
In questo bar si respirava un’atmosfera lontana, idealizzata dalla distanza. I gestori erano napoletani di origine e marsigliesi di adozione, avevano ascoltato le storie dei bisnonni che, arrivati in Francia tra le due guerre, furono costretti a partire come soldati semplici per combattere i loro passati connazionali. Il biliardino era occupato e dai video poker nascosti in fondo alla sala proveniva il rumore dei tasti schiacciati con quel furore tipico del giocatore incallito; le stampe dei giornali sportivi erano appese a una parete pittata di un verde pistacchio e le luci riflettevano sui tavolini argentati, formando un’immagine luccicante con il barista dietro al bancone cromato almeno quanto il suo viso. La foto della Madonna di Lourdes, delle fotografie di gruppo e un ritratto di Tony Montana completavano il dipinto. Ci si sentiva a casa. Spaesati più che altrove.
Dopo essermi rivolto al barista per ordinare da bere, Giacomo aveva subito capito e si avvicinò verso di me. Gli sarà apparso familiare l’insolito accento e quella vergogna che esprimevo in volto non appena entrai nel bar, la timidezza involontaria dell’estraneo che in francese significa anche straniero. L’avrà capito immediatamente Giacomino, nato nel ‘31 in un paese di settemila abitanti disperso tra le campagne vicino Pomigliano d’Arco. Robusto, un po’ ricurvo, due occhi azzurri che esaltavano una faccia vispa, il naso ammaccato. Era passato parecchio tempo, «settant’anni, ma foi!». Era stato capace di mantenere vivo il suo dialetto adornandolo di tanto in tanto con parole sfumate dal francese meridionale, con le vocali aperte e le lettere trascinate fino all’inverosimile.
Nell’ottobre del ‘48 Giacomino, diciott’anni, partì insieme a un amico dall’entroterra, arrivarono a San Remo, provarono ad attraversare la frontiera a piedi dalle montagne ma furono fermati e arrestati dai carabinieri e dopo due notti in carcere li rispedirono a casa. Dopodiché ci riprovarono, perché allora in campagna, diceva, non c’era neanche una buccia di patata da mangiare. Arrivato finalmente a Marsiglia, riuscì a ottenere un visto e cominciò ad arrangiarsi come tutti gli altri. Facevano comodo quelle masse di emigranti, cercavano manovalanza. Giacomo, contadino, diventò muratore da un giorno all’altro.
Giacomino affermava che era stata colpa di Hitler che aveva montato la testa a Mussolini se a quell’epoca non dovevi far capire da dove venivi, se dovevi stare sempre zitto sul posto di lavoro, se quando entravi nella boulangerie il panettiere sentiva l’accento e si rifiutava di venderti il pane. E i francesi dicevano che non avrebbero mai dovuto fare guerra tra di loro, che l’Italia non avrebbe dovuto accordarsi con la Germania. L’Italia dichiarava guerra alla Francia e quelli ci rimasero male. E la colpa di questa storia era anche di Giacomino, in testa a loro. Lui restava appoggiato al bancone e parlava, parlava. Un tizio, che l’ascoltava senza interrompere, a un tratto iniziò a discutere di nostalgia e del sonno che non riusciva a prendere la notte. Poi disse che l’unico problema in città erano quegli “arabi di merda” che stavano dappertutto, diceva che quando parlavano non si capiva un cazzo e che pareva che sputassero sempre a terra.
Giacomino raccontò di quando guadagnava una cosa di soldi agli incontri truccati di boxe che organizzavano durante la fiera al vecchio quartiere: si accordava con gli organizzatori, passava davanti al quadrato facendo finta di niente. Allora quello dal ring gridava: «Chi se lo vuole pigliare a questo?». «Me lo piglio io», rispondeva minaccioso. E mentre dall’altro lato del mondo Giacobbe “Jake” La Motta vinceva per knock-out il titolo mondiale contro un Marcel Cerdan con il braccio slogato (che si ritirò all’inizio del decimo round), Giacomino, con i segni di quegli anni trascorsi addosso, il naso rotto e i denti spezzati, al bancone del Bar de l’avenir parlava di quando saliva sul quadrato con le scolle in fronte perché non mangiava carne, dissimulando la debolezza per incassare cazzotti e perdere i combattimenti, accettando di farsi picchiare per qualche spicciolo. I magliari gli domandavano se non si metteva vergogna. Si, rispondeva, ma non aveva alternative. E poi lui non era capace di fare i pacchi alla gente.
Prima di andare via dal bar disse di sfuggita che quei primi anni lontano da casa gli avevano insegnato a capire cos’era il rispetto e la dignità: due belle parole che non servono a niente quando tieni fame. (andrea bottalico)
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