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25 Giugno 2014

Il Brasile di Herzog: futebol e dittatura

Monitor
(archivio disegni napolimonitor)

da: blog.futbologia.org

Nemmeno dieci anni assieme e Vladimir Herzog era riuscito a trasmettere al piccolo Ivo le grandi passioni di una vita. In una cosa però, da padre, aveva fallito: suo figlio del Palmeiras non voleva saperne. I suoi occhi si accendevano per il bianco e il nero Timao. Poi arrivarono gli anni Ottanta e il Dottore con la sua democrazia fecero il resto: lui sarebbe stato per sempre del Corinthians.

Cinquanta anni fa, il 31 marzo del 1964. Vlado vide i carri armati attraversare Rio de Janeiro e rivisse i suoi primi anni, quelli della fuga. Viveva a Osijek nella Croazia jugoslava e il nazismo era ormai troppo vicino a lui e alla sua famiglia ebraica. Vent’anni dopo a San Paolo un nuovo regime entrava nella sua vita. Questa volta erano i generali di Castelo Branco che senza sbraitare troppo archiviavano il governo di Joao Goulart. Il copione sarebbe stato abusato negli anni: il paese fiaccato dalla stagnazione economica, il boicottaggio delle lobby, le manovre della CIA, la perversione per l’uomo forte. In Brasile aveva inizio la dittatura più longeva dell’America Latina. Ventuno anni e cinque governi militari cambiarono per sempre la storia del paese.

Il futebol divenne strumento di propaganda e fu usato per coprire torture e ingiustizie sociali. Erano gli anni d’oro della Seleção: la sbronza di una storica doppietta (Svezia 1958 e Cile 1962) era definitivamente smaltita nel 1970, quando le resistenze dei ragazzi di Valcareggi furono annientate da Pelé e Jairzinho. Il condottiero di quella nazionale era Mario Zagallo, che a pochi giorni dal volo per il Messico aveva preso il posto di Joao Saldanha.

Saldanha era anche un giornalista e si diceva che avesse simpatie comuniste. Le stesse informazioni che la polizia segreta possedeva su Vladimir Herzog. Nonostante l’allergia per la divisa Vlado fu nominato direttore di Tv Cultura, l’emittente pubblica di San Paolo. In quel ruolo, che interpretò nel modo più libero che gli era concesso, conobbe molta gente. Amici e meno. Sentì fare il suo nome dal deputato José Maria Marin. Quel fascista.

Era qualche giorno, ormai, che a San Paolo l’atmosfera si era fatta pesante. Vladimir ricevette una telefonata dal tono formale. Prima o poi doveva succedere. Alla cornetta lo invitavano a chiarire la sua posizione, ma poteva tranquillamente considerarsi in arresto.

Il 26 aprile del 1975 Herzog lasciò la redazione per pronunciare dei sissignore. Poche ore dopo Tv Cultura aveva bisogno di un nuovo direttore perché gli agenti avevano combinato un casino. Dovevano spaventarlo, pestarlo un po’ e invece lo ammazzarono. Succede. Non solo in Brasile, non solo in quegli anni.

Vladimir Herzog, però, era un personaggio noto e non poteva sparire nel nulla come tutti gli altri. I media furono mobilitati per raccontare il suo suicidio. Una foto in bianco e nero ritrae il giornalista con una corda al collo, sotto i piedi nemmeno l’aria per penzolare. Era impiccato alle sbarre di una finestra, le ginocchia che toccavano terra. Solo nel settembre 2012 fu ufficialmente riconosciuto che Vladimir Herzog era stato massacrato di botte e ucciso dentro quello scantinato. (dario falcini – continua a leggere…)

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