
Ci sono vite che attendono invano. Nel gennaio del 2010 l’allora ministro della Giustizia Alfano proclamò lo stato di emergenza nelle carceri, annunciando un ambizioso e costoso piano straordinario di edilizia penitenziaria che avrebbe consentito di risolvere il problema del sovraffollamento, circa ventimila detenuti in più della capienza ufficiale. Sono trascorsi oltre tre anni e ben duecentodiciannove suicidi. Ma l’emergenza è oggi ancora tutta lì, con gli stessi identici numeri di ieri. Perché non sono le parole a fermare la morte. Oggi, il nuovo ministro della Giustizia, (quella che ieri l’altro era ministro degli Interni), la Cancellieri, ha presentato le misure contenute nel decreto legge che affronta l’emergenza carceri. Piccole modifiche normative che consentiranno, a chi condannato a una pena inferiore a due anni, di ottenere una pena alternativa al carcere, amplieranno la possibilità (per pochi casi) di essere condannati ai lavori socialmente utili in luogo della pena detentiva, estenderanno lo spazio di applicazione delle misure alternative. In base alle stime dello stesso ministro, questo provvedimento consentirà di ridurre, nei prossimi due anni, di avere circa seimila detenuti in meno. Il ministro,inoltre, ha promesso cinquemila nuovi posti per l’anno prossimo e altri cinquemila entro il 2016, in base al piano carceri approvato nel 2010. Fra tre anni, dunque, se tutto va bene, avremo ancora cinquemila detenuti in più, ma, garantiti i profitti delle imprese edilizie, potremmo parlare allora di ordinario affollamento e non più di emergenza. E nel frattempo?
Nel mentre, le vite che attendono invano non aspettano più. Circa duecentoventi morti nell’ultimo anno. Contiamo tre suicidi solo nelle carceri campane nell’ultimo mese. Tre storie diverse con un destino comune, destinate a finire, nel migliore dei casi, tra le brevi di cronaca. Il 31 maggio si è tolto la vita un detenuto straniero nel carcere di Poggioreale, duemilasettecento presenze su una capienza di millequattrocento posti. Il 19 giugno, nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano, si è tolto la vita un sofferente psichico di ventinove anni. Il 20, infine, il suicidio di Luigi D., di trentotto anni, di nuovo a Poggioreale.
Senza retorica, con il rispetto che richiede il dolore, dovremmo davvero chiederci se ci troviamo di fronte a un destino cinico e baro o se forse non vi è una responsabilità pubblica e politica per tutto questo? Perché si tratta di persone per le quali era presumibile che l’impatto con il carcere e le condizioni detentive determinassero condizioni di stress e di vulnerabilità. Perché la costrizione in una cella ventidue ore su ventiquattro, la condivisione di spazi angusti e in precarie condizioni igieniche con altre persone, l’assenza di spazi di socialità e di relazioni umane, la mancanza assoluta di momenti di privacy, determina una privazione di identità che ferisce anche la persona più strutturata. Se poi chi entra in carcere ha già un problema psichico la sorte che l’attende non è quella della cura. La deputata Luisa Bossa ha segnalato in una interrogazione parlamentare, presentata dopo una visita di Mario Barone di Antigone, che a Poggioreale ci sarebbe una sorta di “reparto psichiatrico” con detenuti con problemi specifici di carattere psichico ristretti in isolamento, senza assistenza medica continuata e in contrasto con i principi dell’ordinamento penitenziario e con le stesse circolari in materia emesse dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Ma è una condizione diffusa in tutte le carceri del nostro paese, come testimoniano, più di recente, le sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Tutto questo non dipende solo dal sovraffollamento, anche se certo i numeri rendono la situazione ancora più critica. Sono due i fattori determinanti. Da un lato le politiche penali hanno assunto un ruolo dominante nella scena politica, arrivando nei fatti a condurre in carcere non tanto esponenti della criminalità organizzata, ma migliaia di immigrati e tossicodipendenti, arrivando a sanzionare con pene molto alte anche reati di minore gravità. Dall’altro, malgrado una normativa penitenziaria a suo modo garantista e rispettosa del dettato costituzionale, nelle carceri si è progressivamente affermata, tranne rare eccezioni, una cultura materiale quotidiana fatta di inumanità, abbandono e degrado che ha come unico scopo quello di contenere e rendere inoffensivo ogni forma di disagio.
Fare qualcosa per le carceri, non significa limitarsi a un atto caritatevole o approvare qualche piccolo provvedimento di riforma, ma significa mettere al centro dell’azione politica i temi della libertà e della tutela dei diritti fondamentali, della de-carcerizzazione e della depenalizzazione, dell’abrogazione delle norme punitive per i migranti e della fine di politiche proibizioniste in tema di sostanze stupefacenti. Non sono questioni che riguardano i detenuti, ma tutti i cittadini. La nostra sicurezza non dipende dal numero di persone che sono detenute, ma dai diritti e le libertà che ci sono garantiti. Ci sono vite che attendono invano e ci sono diritti che non aspettano oltre. (dario stefano dell’aquila)
Leave a Reply