In questi giorni gli operatori sociali tornano a manifestare in piazza per ottenere dal comune gli stipendi dovuti da mesi se non da anni. Nel frattempo il candidato sindaco del Pd incontra le organizzazioni del terzo settore per esporre la parte del suo programma che riguarda le politiche sociali. Sia in piazza che nelle riunioni con i candidati, che si moltiplicano in questo periodo, si parla soprattutto di finanziamenti da dare e da ricevere, dell’adozione di questa o quella misura per fronteggiare il malessere e la povertà, ma non è affatto scontato che la mera applicazione di tali misure apporterà benefici al tessuto sociale. Anzi, raramente è stato così finora, e mai nessuno, né la parte pubblica né il privato sociale, si è preoccupato di tornare sui risultati ottenuti, rendendo conto alla comunità di come sono stati spesi i soldi, fornendo segnali tangibili di un’emancipazione avvenuta, di una trasformazione positiva in atto. È in questo passaggio, dalla programmazione alla messa in atto, il vero punto debole delle politiche sociali di questi anni, e non solo a causa delle insolvenze o dell’immobilismo delle amministrazioni.
Questioni come la formazione degli operatori, la verifica dei risultati del loro intervento e in ultima analisi la legittimità dei ruoli, da un lato di chi si prende cura e dall’altro di chi è curato, sono sistematicamente relegate in secondo piano da chi rivendica e da chi promette. In tal modo l’intervento sociale rischia di diventare un settore per specialisti, separato dalla comunità alla quale dovrebbe venire in soccorso, i cui membri non hanno alcuna voce in capitolo sulle misure che li riguardano. Un sistema che finisce per alimentarsi del disagio e, fatalmente, per alimentarlo.
Un libro e un film di recente uscita ci forniscono punti di vista non scontati che mettono in discussione questi presupposti, ricordandoci che le relazioni educative non riguardano un ristretto nucleo di addetti ai lavori ma tutti i cittadini, e dal modo in cui vengono interpretate e si sviluppano dipende una buona fetta del nostro futuro.
Il libro si chiama Come partorire un mammut (e non rimanere schiacciati sotto). Antologia di pratiche, modi, strumenti, visioni e intuizioni dell’intervento pedagogico. Edito da Marotta&Cafiero, racconta di un’esperienza ancora in corso, che coinvolge soprattutto bambini e adolescenti, ma anche le loro famiglie, e poi operatori sociali, scuole e insegnanti. Il volume raccoglie materiali eterogenei, in gran parte testi, ma anche tabelle, foto, disegni, storie a fumetti prodotte in tre anni di attività dal centro territoriale Mammut, dieci operatori e una cinquantina di volontari, con sede a Scampia ma collaborazioni con gruppi omologhi in diverse regioni italiane. Dopo aver dato conto del lavoro svolto, quelli del Mammut cercano di chiarire i principi che li hanno guidati mettendo insieme testi di pedagogisti del passato e del presente, ma anche di urbanisti e scrittori con cui hanno collaborato in questi anni. Si delinea così un metodo che prende forma sul campo, dove anche l’educatore ha tanto da imparare e l’allievo da insegnare. La teoria è importante, dicono quelli del Mammut, ma deve nascere dalla pratica, va negoziata con chi ci sta intorno, non basta averla studiata sui libri; e quindi prima si fa insieme e poi si riflette, si cambia, si aggiusta il tiro, si riprova. È questa l’esortazione che viene fuori da questo libro-esperienza, con l’auspicio esplicito che venga moltiplicato e modificato da lettori attivi e partecipi.
Il film si chiama invece Cadenza d’inganno ed è un documentario di Leonardo Di Costanzo, regista che ha già raccontato gli adolescenti della periferia napoletana nel riuscitissimo A scuola di qualche anno fa. Stavolta il protagonista è un dodicenne di Montesanto, Antonio, che vive in un basso, va male a scuola e passa felicemente il suo tempo per strada, salvo alcuni pomeriggi che trascorre a casa di una ragazza più grande, una studentessa che dovrebbe aiutarlo a fare i compiti ma spesso finisce per farsi coinvolgere nei suoi giochi e nel suo girovagare. A un certo punto però Antonio si ribella al meccanismo del documentario e rifiuta di farsi seguire dalla telecamera, non vuole più essere filmato. Il regista è costretto a interrompere le riprese. Le riprenderà solo dieci anni più tardi, ovvero l’anno scorso, quando lo stesso Antonio lo chiamerà per invitarlo a filmare il suo matrimonio, consegnandogli in questo modo un degno finale per il suo documentario.
Di Costanzo esplora lo stesso terreno del libro del Mammut ma da un punto di vista rovesciato, quello del ragazzo di strada, ideale destinatario di ogni intervento educativo. Così gli bastano poche sequenze per rendere evidente il fallimento della scuola di oggi con i ragazzi come Antonio, ma anche la possibilità di un incontro tra mondi diversi, quello di Antonio e della ragazza, fuori dagli schemi dell’educatore di professione e del giovane da redimere; ma soprattutto riconosce il diritto e la concreta possibilità di scegliere, e quindi anche di sottrarsi, a chi viene relegato nel ruolo del bisognoso, del marginale. Sarà Antonio, infatti, a decidere come e quando si concluderà il film, di cui in fin dei conti è il protagonista.
Queste opere, nate in ambiti diversi ma basate sull’osservazione e sull’esperienza, non ci parlano del quanto ma si interrogano sul come; rompono i recinti creati dagli specialisti ricordandoci che le relazioni tra generazioni diverse, la convivenza con l’altro sono questioni che riguardano tutti, non solo maestre e assistenti sociali; usando l’analisi o l’intuizione allargano lo sguardo sull’intera città, contesto educativo ben più variegato delle aule di una scuola o delle mura domestiche, dove tutti abbiamo da insegnare ma anche da apprendere, senza distinzioni tra sani e malati, esperti infallibili e masse bisognose. (luca rossomando)
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