Poerio, Tito Livio e Fiorelli sono le scuole medie di Chiaia. Messe assieme su di una mappa, tracciano una diagonale parallela alla Villa comunale. Se la prima è nota per ospitare al suo interno una piscina e un campo di calcetto, oltre al considerevole numero di motorini parcheggiati nel cortile, la seconda si contraddistingue per le felpe identitarie stile college in dote ai suoi piccoli allievi. L’ultima, la Fiorelli, è stata la mia scuola dagli undici ai quattordici anni. L’edificio, ricostruito nel dopoguerra, stacca in maniera netta dalle facciate tardo ottocentesche che danno su via Fiorelli. Alcuni particolari suggeriscono che non sia stata pensata come scuola, ma si sia trovata a esserlo nel tempo.
Nella sede centrale era concentrato il maggior numero di classi. La succursale, alla Torretta, ne ospitava giusto qualcuna, composte in gran parte da ragazzi del quartiere. Le foto dell’annuario, ben sintetizzano la situazione. Quelle scattate in centrale ritraggono in grandangolo, classi sovraffollate disposte in tre-quattro file. Dietro, cartelloni colorati e i resti della scenografia di qualche recita. Nelle classi della succursale l’ottica stretta non toglie importanza allo sfondo. Pareti desolatamente bianche davanti le quali sono immortalate classi di una decina di ragazzi, in cui i bidelli sono chiamati a fare numero. Il curioso gioco di ottiche fa sembrare i ragazzi di una prima della succursale decisamente più grandi di quelli di una terza della centrale.
Anello di congiunzione tra le due realtà era il professor Mario Esposito. In barba al luogo comune che vuole gli insegnanti di educazione fisica dei perfetti scansafatiche, il professor Esposito era mosso da una passione per lo sport che si traduceva in un dinamismo fuori dalla norma. Si faceva promotore di qualsiasi iniziativa sportiva in orario extra-scolastico: dalle uscite in Villa comunale per l’ora di ginnastica, alle gare di nuoto, dalla corsa campestre ai tornei di pallavolo e basket. Avviava e seguiva di persona il percorso agonistico dei suoi alunni fuori dalla scuola. Il suo credo sportivo includeva anche il disperato tentativo di arginare la calciofilia che dominava la componente maschile della classe. Si andava dall’introduzione del gioco della pelota in palestra, alla scoperta dell’universo-pallamano, sport da lui amato e praticato in passato, con tanto di proiezioni di suoi VHS con le registrazioni delle partite dei campionati del mondo.
In classe, quando pioveva o la palestra era occupata, trovava due modi per gestire la nostra condizione di cattività: ironizzare durante l’appello che vi fossero un Cardarelli e un Cotugno nella stessa sezione, cercando con lo sguardo Monaldi, puntualmente dato per assente; o quando, con gli occhi spalancati e la solita antifrasi, stroncava il nostro dondolare sulle sedie, raccontandoci quanto fossero stati belli i funerali di un ex-alunno che perse la vita proprio in quella circostanza. In realtà, la sensazione di cattività proseguiva, all’aria aperta, anche quando educazione fisica la facevamo. La palestra della Fiorelli era una striscia rettangolare di cemento adibita a parcheggio. Tra il riscaldamento e una mano di pelota non era raro raccogliere o calciare, in base all’umore, mollette, pezzi di pane, tovaglioli e qualsiasi altra cosa potesse cadere dai balconi. Era forse anche per questo che i tornei di calcio erano più attesi della primavera.
L’annuncio della data aveva la potenza di sovvertire l’umore e il modo di vivere e affrontare la scuola. In poco tempo, la notizia diventava argomento di discussione tra bagni e corridoi anche con quei ragazzi che, quando venivano a scuola, trascorrevano più tempo fuori che dentro le classi. Per limitare l’effetto destabilizzante che la notizia generava in termini di concentrazione, Esposito fu obbligato dal consiglio di classe a posticipare sempre di più la comunicazione della data del torneo, fino a metterne in dubbio l’organizzazione.
A un mese dal torneo cominciavano i preparativi. Nella nostra sezione, la B, nulla era lasciato al caso. A improbabili formazioni disegnate su Paint, seguivano pomeriggi interi a discutere e fantasticare su quali schemi e tattiche adottare, fino a litigare su chi sarebbe stato il capitano e chi avrebbe battuto punizioni e rigori. Il professore veniva consultato come un oracolo sulle sezioni favorite e puntualmente faceva finta di niente. Sapeva benissimo che la C, squadra composta per metà da ragazzi del Pallonetto, era la favorita, sempre.
Otto squadre, due campi e sei ore per riempire il tabellone e decretare vincitori e sconfitti. Le prime partite cominciavano alle 8.10, finale e premiazione alle 14. L’arena degli incontri erano “I Pineta”, a Fuorigrotta, alle spalle dell’ex Sferisterio, conosciuti dai piedi più aristocratici come “campi di patate” per via del terreno che diventava fangoso al primo accenno di pioggia. Noi, non potevamo chiedere di meglio.
I due campi da gioco, rialzati rispetto al piazzale con cui termina via Brigata Bologna, sono riparati da un grosso costone di tufo, sulla cui cima svettano i palazzi di via Manzoni, suscitando l’effetto di giocare davanti a enormi spalti naturali. Su quelle gradinate di tufo si infrangevano e rimbalzavano le urla, i fischi e le pallonate calciate fuori dal campo. Il groviglio di medaglie trovato in un cassetto si rivela impietoso nel mostrare, incisi nel metallo, tutti i nostri piazzamenti. Il podio non l’abbiamo mai visto. Tranne una volta.
Tiziano era lo Zlatan Ibrahimovic della Fiorelli, non tanto per caratteristiche tecniche, quanto per il fatto che a ogni torneo cambiasse squadra. La sua classe non raggiungeva mai il numero necessario per formarne una. Era la I, o almeno credo, dal momento che nella foto dell’annuario c’è ma non risulta nell’elenco dei nomi. È più probabile che si sia imbucato prima che il fotografo scattasse, considerandolo un momento come un altro per stare con i suoi amici di sempre. Nella foto Tiziano è seduto, la gamba sinistra poggiata su quella destra e un espressione serafica, sicura di sé. Ai piedi, le sue scarpe da calcio.
Dopo averlo corteggiato per mesi, in seconda media riuscimmo a portarlo per un torneo nella nostra squadra. Fu determinante il consenso del professor Esposito, il quale ripeteva spesso che Tiziano “se sta da solo è un ragazzo come tutti, se sta con un altro Tiziano sarebbe capace di far saltare in aria la scuola”. Evidentemente la nostra classe, che per “vivacità” era considerata tra le peggiori delle cosiddette buone classi, era comunque innocua per Tizi-gol. Questo il nome che si fece scrivere a pennarello sopra il nove, sul retro della maglia bianca con cui affrontammo il torneo.
Quanto era forte Tiziano… Aveva tutto: potenza, velocità, un sinistro infallibile e nonostante ciò un’umiltà rara per chi gioca bene a calcio. Quando poteva, cercava sempre di farci segnare e di difendere la sua squadra, anche se solo per quella giornata. Con lui in campo il nostro apporto alla squadra spesso si limitava a correre come ossessi per sdebitarci del suo lavoro. Arrivammo in finale, ma fummo battuti dalla solita sezione C, in una partita memorabile.
Torneo dopo torneo, erano sempre più frequenti le occasioni in cui si passava il tempo assieme, negli stessi posti: dai bagni al lido Sirena, alle serate a piazza San Pasquale, i ricordi di quelle giornate erano l’occasione e forse il pretesto per parlare d’altro, per conoscere espressioni, gesti, abitudini nuove, riducendo quella distanza che impediva di incrociare gli sguardi nei corridoi, sgretolando quel muro di diffidenza reciproca oltre il quale gli uni erano “tamarri” e gli altri “figli di papà”.
A volte ripenso a quei professori che volevano far saltare il torneo, secondo un’attitudine tipica della scuola, nel reputare futile ciò che è indispensabile e necessario ciò che, se non è dannoso, è inutile. Quelle giornate felici e massacranti erano in grado di mescolare, fuori dalla scuola, un ambiente misto solo formalmente, ma più chiuso che mai nelle aule. Gli sarebbe bastato un sabato mattina ai Pineta, a quei professori, per constatare che il “nipote del boss” era il più forte di tutti a pallone, che il genio in matematica subiva di continuo gol sotto le gambe, che la classe del Pallonetto, in campo, in disciplina e organizzazione poteva dare lezioni. Gli sarebbe bastato un sabato mattina per capire che finché Tiziano fosse rimasto in classe con altri Tiziano e basta, si sarebbe ricordato della scuola solo per quelle pareti bianche e le grate oltre le finestre.
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Occhi azzurri, baffi bianchissimi. Dopo circa dieci anni trovo il professor Esposito poco cambiato da come me lo ricordavo, perfino con lo stesso giubbino blu con strisce beige e lo stesso modo di reggere con la mano qualcosa dietro una spalla, ieri la sacca che conteneva i palloni, oggi una busta da cui si intravedono alcuni oggetti colorati.
Mi inizia a parlare della sua “missione” durata quarant’anni, riuscire a salvare le ore di ginnastica nelle scuole prive di strutture. Dalla Capuozzo, all’ITC di Portici, passando per ventisette anni alla Fiorelli. L’assenza di palestre lo spingeva a chiedere e ottenere ospitalità a scuole vicine, caserme, polisportive, perfino allo stadio Albricci. Forte dell’appoggio dei genitori, come un pastore urbano ha accompagnato le sue classi ovunque purché facessero sport, sfidando i presidi e le Vespe, che per le strade sfrecciavano senza targa.
Poi arriviamo alla sua passione per la pallamano. «Presi il brevetto di allenatore a Spalato negli anni Settanta, in un periodo di gran fermento, Concetto Lo Bello era presidente della federazione. Grazie a un segretario regionale del Coni, si riuscirono a portare a Napoli le più grandi squadre europee: Russia, Jugoslavia, Francia, Belgio. Decisi di trasmettere quest’entusiasmo anche a scuola. All’inizio alcuni credevano che la pallamano l’avessi inventata io… Grazie ai contatti che avevo, dopo una partita al palasport Mario Argento, mi presi una coppia di porte regolamentari 3×2 per fare un campo in palestra. Siccome il camioncino su cui caricarle costava troppo, mi procurai dei pattini e li misi sotto alle porte. Con l’aiuto di tre-quattro ragazzi le portammo a piedi da Agnano alla Riviera di Chiaia, passando sotto la grotta, fino al cortile della scuola. Sono sicuro che sono ancora lì».
Mentre parla mi torna alla mente un’altra sua abitudine, quella di ripetere spesso l’ultima parola della frase, come a rafforzarne il senso. «Ho due figli, entrambi appassionati della pallavolo. Uno è giocatore e arbitro e l’altro allena. Hanno cercato di coinvolgermi nella loro società ma dopo un periodo di prova ho rinunciato. Non vedevo interesse da parte dei ragazzi, che oggi sono attratti da altre cose, ma non certo dallo sport. Lo sport inizia per esse, la stessa iniziale di sacrificio…».
Da qualche anno in pensione, il prof Esposito oggi si dedica a collezionare e smerciare oggetti, i più svariati, dalla porcellana ai vinili. Prima di salutarci lo accompagno in un negozio di elettronica, dalla busta estrae una torcia da campeggio verde e rossa, e chiede al negoziante delle pile idonee. «Mi dispiace – fa quello con un leggero sorriso – ma questa torcia avrà almeno trent’anni…». (dario cotugno)
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