Negli stessi giorni in cui la magistrata Iolanda Apostolico del tribunale di Catania dichiarava illegittimi gli effetti del Decreto Cutro, mentre Lampedusa commemorava l’anniversario del naufragio del 3 ottobre 2013 e il rimorchiatore Open Arms veniva bloccato nel porto di Carrara con un fermo amministrativo, nelle sale cinematografiche italiane proseguiva la programmazione di Io capitano di Matteo Garrone.
Presentato all’80° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e premiato con il Leone d’argento per la regia, l’undicesimo lungometraggio del regista romano mette in scena il viaggio epico di due minorenni senegalesi, Seydou (Seydou Sarr, vincitore a Venezia del premio Marcello Mastroianni) e suo cugino Moussa (Moustapha Fall), che partiti da Dakar per raggiungere l’Europa si troveranno a percorrere la rotta migratoria occidentale: dal Senegal al Niger, passando dal Mali e dal deserto del Sahara, fino ai lager libici e alla costa di Tripoli, dove si imbarcheranno per affrontare la traversata nel Mar Mediterraneo.
Un’odissea contemporanea che Garrone, coadiuvato nella sceneggiatura da Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, rilegge in una chiave personale, a metà strada tra road movie, via crucis e romanzo di formazione. Le dolorose “stazioni” che i due protagonisti attraversano, infatti, vanno a costituire il più tipico dei film di Garrone, in grado di fondere reale e fiabesco, storia e individuo, documentazione e invenzione, crudeltà e umanità.
L’intento di Io capitano, secondo le parole del regista, è di raccontare i flussi migratori del Mediterraneo attraverso un “controcampo”, ovvero spostando il punto di vista dall’Europa all’Africa e sforzandosi di offrire una forma visiva a quella dolorosa parte di viaggio che generalmente, per lo sguardo occidentale, resta “fuori campo”. L’opera, in questo senso, funziona e i tre milioni di spettatori e spettatrici che hanno popolato i cinema hanno senz’altro trovato l’occasione di rimanere turbati dalla storia di chi sceglie di partire.
Tuttavia, occorre sottolinearlo, Io capitano non è cinema militante. Concorre, certo, a rinfoltire una narrazione che ha ancora bisogno di immagini (e in un universo mediale in cui lo storytelling è tutto, l’opera di Garrone aiuta a svelare ciò che solitamente è invisibile), ma, esclusa la sua spinta divulgativa, il film sembra non prendere parte direttamente al dibattito politico, finendo per scivolare su alcuni aspetti problematici, ben evidenziati da Simona Cella sulle pagine online di Nigrizia: uno su tutti, la scelta di utilizzare una troupe a prevalenza italiana nei suoi reparti principali nonostante il Senegal sia uno storico bacino di professionalità cinematografiche.
Affinché il suo obiettivo deflagri, dunque, sembra che la visione di Io capitano debba essere completata, integrata con una sorta di cartografia supplementare, che non perda di vista il discorso filmico ma sia in grado di fornire coordinate ulteriori per muoversi nelle maglie profonde del tema.
Suddividendo l’opera in tre segmenti (la vita in Senegal, il viaggio attraverso le frontiere africane, la partenza dalla Libia), è forse possibile tracciare una piccola costellazione (non esaustiva) di film da affiancare all’immaginario di Io capitano.
Innanzitutto, la vita di Seydou e Moussa nella Médina di Dakar raccontata da Garrone, pur volendo normalizzare il desiderio del viaggio, assecondando sottotraccia l’idea di una libera circolazione delle persone, manca di un reale slancio de-coloniale. Il rapporto semplificato tra Senegal ed Europa, ridotto a qualche riferimento calcistico e una manciata di video nei telefoni dei protagonisti, può allora essere espanso tornando agli scardinanti solchi tracciati da autori senegalesi come Sembène Ousmane in La noire de… (1966), Djibril Diop Mambety in Touki Bouki(1973) e Ben Diogaye Beye in Les Princes Noirs de Saint-Germain-des-Près(1975). Sguardi storici che restituiscono ancora oggi, con forza immutata a distanza di oltre cinquant’anni, le dinamiche conflittuali tra memoria coloniale, sfruttamento e sradicamento.
Il viaggio messo in scena da Garrone, che s’ispira alle storie vere di Mamadou Kouassi (attivista dell’Ex Canapificio di Caserta), Fofana Amara, Arnaud Zohin, Pli Adama, Tareke Brhane e Siaka Doumbia (che hanno collaborato alla sceneggiatura), ci ricorda d’altronde la centralità della testimonianza e risuona in esperienze come quella dell’Archivio delle Memorie Migranti o in lavori come quelli di Andrea Segre (A sud di Lampedusa, Come il peso dell’acqua, Mare chiuso) e Dagmawi Yimer (Come un uomo sulla terra, Soltanto il mare). D’altra parte, scegliendo la strada della finzione, Garrone ci ricorda che alle volte, per essere avvicinata, la realtà ha bisogno di essere trasfigurata, immaginata, messa in racconto. Sembra muoversi in questo senso anche la scelta “produttiva” di voler girare il film in sequenza, senza mai fornire ai protagonisti una sceneggiatura integrale ma descrivendo loro oralmente le “avventure” di giorno in giorno, dal villaggio di Dakar fino alle riprese nelle acque a largo di Marsala.
Ed è proprio la partenza in mare dell’ultimo segmento di Io capitano a richiamare alla mente un altro film di finzione, La Pirogue, presentato nel 2012 a Cannes dal senegalese Moussa Touré. Un’opera lancinante, che conduce lo spettatore dentro la rotta migratoria atlantica, a bordo di uno scafo in viaggio dal Senegal alle Canarie. La differenza tra Touré e Garrone, tuttavia, è tutta nell’epilogo: se il primo sceglie di mostrare nella sequenza conclusiva del film l’insensato rimpatrio forzato dei sopravvissuti, coattamente ricondotti in Senegal dalle autorità spagnole e dalle politiche migratorie europee, il secondo si ferma sulla soglia. Il primo piano con cui si chiude Io capitano, infatti, lascia fuori campo le leggi e i decreti-legge, i Cpr, le propagande, i processi. Garrone sceglie di lasciare il suo protagonista sullo schermo nelle vesti di “capitano”, delegando a chi guarda lo sforzo immaginativo e la responsabilità etica di completare quel viaggio con l’inquadratura che non c’è, se non nella realtà quotidiana. Quel finale non mostrato, che distorce l’“io capitano” in “tu scafista”. (roberto p. ormanni)
Leave a Reply