Quando si discute di politiche culturali a Napoli sembra d’obbligo prendere le mosse dal disastro annunciato del Forum delle culture. Il coro dei critici si è talmente infittito negli ultimi tempi che è diventato difficile distinguere chi rimprovera i politici perché non sono riusciti a organizzare l’evento, da chi li biasima perché si ostinano a volerlo celebrare; chi approva i grandi eventi, però fatti a regola d’arte, da chi depreca questa maniera di governare la città; chi chiede di mandare tutto a monte, da chi vorrebbe un posticino per sé nella “fiera delle culture” che prima o poi vedrà la luce. In questo modo anche i contestatori rischiano di fare confusione. Qualche giorno fa si è tenuta a Chiaia un’affollata assemblea di operatori culturali in cui l’assessore comunale alla cultura – il suo omologo regionale, più avveduto o forse più cinico, aveva declinato l’invito – è stato vivamente contestato per la sua volontà di realizzare a ogni costo il Forum delle culture. I promotori dell’assemblea gli avevano messo di fronte tre amministratori provenienti da Torino, invitati per magnificare le politiche culturali di quella città, senza avvertire però che quelle stesse politiche hanno avuto origine a loro volta da un grande evento, l’Olimpiade invernale del 2006, che ha generato un indebitamento enorme e un modello di gestione che ha mostrato in questi anni più contraddizioni e debolezze che punti di forza.
Ma proviamo a guardare le cose da un’altra angolatura. Non è poi così scontato che l’identità culturale di una grande città debba prendere forma nelle anticamere di amministratori e politici, soprattutto se questi non hanno – come in Comune – né i mezzi né le idee per operare in modo efficace, oppure avendo le risorse – come in Regione – le gestiscono secondo logiche autoreferenziali, noncuranti dell’opinione pubblica. In realtà, questa identità può essere ancora fortemente influenzata dagli artisti, dagli autori e dalle loro opere. E perché no, dai produttori e dagli organizzatori. Al di là di ogni “politica”, riuscita o non riuscita, l’identità culturale della città passa prima da qui. Per il talento e la sensibilità di chi prova a rappresentarne lo spirito, o la complessità, attraverso la musica, il teatro, il cinema o qualsiasi altra forma d’arte. Per la tenacia di chi cerca di coniugare, in tanti quartieri, l’intervento sociale con quello culturale. Per la lungimiranza di chi tiene aperta la porta alle proposte meno scontate, di chi osa sprovincializzare sfidando le correnti maggioritarie più conformiste. Si tratta di una folla, lo sappiamo. Ed estremamente eterogenea, fatta di artisti veri e di mestieranti, di idealisti e di furbi. In tanti, in troppi nel recente passato, sono sfilati alla corte del politico di turno, quando la borsa era piena e i cordoni allentati. Ma ora i soldi sono finiti e non si può più bluffare. Servono buone idee, coraggio, inventiva.
Alcuni, alle prime avvisaglie, hanno cominciato a muoversi in autonomia. Hanno cercato un posto, anche in periferia, si sono insediati e hanno iniziato a lavorare – l’amministrazione non riesce a fare nemmeno questo, assegnare in tempi accettabili, ai gruppi che ne hanno bisogno, le decine di spazi abbandonati di sua proprietà –. Si ricomincia così dagli interlocutori più prossimi: i giovani, gli adolescenti, si cerca un rapporto con le scuole, si riscoprono i luoghi pubblici. E le risorse – per uno spettacolo, per un film, per progetti più compositi – si cercano ad ampio raggio: bandi europei, sottoscrizioni, fondazioni private, piattaforme di finanziamento on line; anche la Chiesa, che gli uomini di fede più illuminati riescono talvolta a coinvolgere in imprese innovative. Gli esempi sono molteplici, e in tanti campi. Limitarsi a un elenco sarebbe superficiale. Quel che serve è soprattutto qualcuno disposto a prendere sul serio questi germogli: critici desiderosi di confrontarsi con le opere nuove, di accompagnare e far lievitare le produzioni culturali emergenti; giornalisti interessati a raccontare da vicino pregi e difetti delle nuove realtà, evitando l’esaltazione facile, la retorica dell’“eroismo quotidiano”.
L’altro polo della cultura cittadina, quello dei teatri stabili e dei megafestival, dei grandi musei e delle istituzioni ufficiali, quello che naviga in superficie e attira più facilmente gli sguardi, e anche i pochi soldi che restano, conserverà il suo potere ma comincia a perdere fascino. Gli assessori alla cultura continueranno ad allestire il cartellone estivo e quello natalizio; i burocrati della cultura presenzieranno alle serate di gala, ai vernissage, agli allestimenti teatrali milionari; gli impresari ammanicati organizzeranno senza dubbio i concerti del prossimo Forum delle culture; e tutti insieme si baloccheranno con le ricadute turistiche del loro operato, fremendo d’orgoglio per il prossimo trafiletto di elogi sul Financial Time. Altrove, magari nelle pieghe del movimento sotterraneo che lentamente precisa le sue forme, nella crescente consapevolezza che bisogna ricominciare a fare da sé, insieme agli altri ma senza scorciatoie, opportunismi o legami ambigui, potrebbero nascere le opere, e le pratiche, che segneranno l’identità culturale della città nei prossimi anni. (luca rossomando)
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