Foto di Alessandra Ferlito e Lucio Serafino
Sono le nove e mezza di un lunedì mattina a Torino. Finalmente non piove. Ci vediamo in piazza Vittorio per fare colazione all’aperto e ci sediamo alla terrazza di un bar che ha i tavolini al sole. Consumiamo una colazione normale a un prezzo di lusso, ma siamo ancora troppo stordite dal sonno e non riusciamo a commentare, anche se entrambe pensiamo di essere state derubate. Ci incamminiamo verso via Po, e iniziamo a passeggiare sul lato destro dei portici verso piazza Castello. Molti negozi sono ancora chiusi, in giro ci sono poche persone.
All’altezza di via Sant’Ottavio incontriamo un gruppo di quattro persone, di cui tre giovanissime, armato di spugnette abrasive e acqua. Hanno circondato un pilastro, ne hanno coperto il suolo intorno con un telo di plastica e si accingono a pulirne le pareti da scritte e segni fatti con le bombolette spray. Il loro primo obiettivo è una tag rosso fuoco di modeste dimensioni: la persona più matura mostra come fare e le tre giovani la guardano con aria perplessa. Le osserviamo all’opera per qualche minuto, un anziano che fa la stessa cosa, nella tipica posa dell’umarèll, ci rende meno visibili. Bisbigliamo tra noi che di questo passo non avranno finito neanche tra un mese. Situata nel cuore del centro, via Po è un luogo di incontro quotidiano tra residenti, studenti, persone senza tetto, turisti, commercianti e ristoratori, nonché passaggio privilegiato delle manifestazioni politiche cittadine: le numerose scritte che compaiono lungo i portici ne riflettono tutta la vitalità conflittuale. In passato ne abbiamo fotografate alcune e ne conserviamo una piccola galleria sul telefono.
Poco oltre incontriamo altre persone all’opera. Questa volta hanno dei camici bianchi integrali da imbianchino e armeggiano con pennelli ed enormi raschietti. Un uomo sulla settantina inumidisce alcuni manifesti anarchici sparsi sulle colonne, mentre alcuni giovani volenterosi, dietro di lui, li raschiano via minuziosamente. La faccenda inizia a incuriosirci. Giunte alla fine della via, ormai su piazza Castello, vediamo sul lato opposto altre persone al lavoro. Stavolta, però, hanno metodi più efficaci: armate di pennelli e vernice, stanno coprendo le scritte presenti sulle arcate dei portici.
Attraversiamo la strada e scambiamo due parole con alcune di loro. La prima con cui parliamo è una commerciante di via Po. Ci dice che dei portici in condizioni simili sono non solo una vergogna, ma soprattutto un danno per chi come lei ha un’attività in zona: «Lo sappiamo bene chi è che fa queste scritte qui. Per un turista non è bello trovarsi di fronte a una città sporca così!». Mentre proviamo a immaginare quanti turisti possano essersi mai realmente lamentati con lei dei graffiti lungo la via, la negoziante spiega che tutte le persone presenti oggi sono commercianti, o abitanti della via, o semplici cittadini volenterosi. Hanno aderito a un’iniziativa lanciata dall’Associazione Commercianti di Via Po.
A dare risonanza all’iniziativa, qualche giorno prima, era stato un articolo su La Stampa, dove si annunciava ora e luogo dell’appuntamento per partecipare ai lavori di pulizia dei graffiti e della “immagine di degrado che essi restituiscono”. Nell’articolo leggiamo che l’operazione si è realizzata con il supporto della Circoscrizione 1 e in collaborazione con Torino Spazio Pubblico e Fondazione Contrada. Dal sito web di Torino Spazio Pubblico apprendiamo che si tratta di un “progetto di cittadinanza attiva” promosso dal Comune: esiste dal 2013 e “favorisce la cura degli spazi pubblici attraverso interventi di pulizia e piccola manutenzione degli elementi di arredo urbano e del verde pubblico”. A questo scopo il progetto inquadra volontari per operazioni come quella a cui stiamo assistendo. Fondazione Contrada, invece, è un ente del terzo settore costituito nel 2008 per volere della Città di Torino, dell’Università degli Studi e della Compagnia di San Paolo. Si occupa di riqualificazione ambientale attraverso operazioni di tinteggiatura delle facciate e promozione di progetti di arte urbana, con un focus particolare sui cosiddetti “frontespizi ciechi” spesso affidati all’opera di writer e street artist professionisti. In merito ai portici l’obiettivo è di “aprire spazi di espressione artistica sotto i portici della città, con un particolare sguardo alla creatività giovanile”.
Chiediamo alla commerciante se secondo lei l’iniziativa sta riscuotendo successo: «Ah, si si! Vedete? Questa mattina sono venute a darci una mano anche delle cinesine» – dice indicando con lo sguardo due ragazze dai tratti asiatici che sono lì a guardarla lavorare. Dice anche che «questa situazione si può risolvere solo con una maggiore vigilanza, che permetta di multare chi fa le scritte», e con tono ottimista e fiducioso conclude affermando che «presto arriveremo anche a questo». Qualche passo più avanti incontriamo un altro gruppo di lavoro composto da un commerciante e due volontari. Uno di questi ha letto l’articolo su La Stampa e, pur abitando in un altro quartiere, alle nove del mattino si è presentato all’appello lanciato dai promotori. Un’altra arriva da Roma e ha deciso di dedicare qualche giorno della sua vacanza torinese a questa attività collettiva: «Quando ho saputo dell’iniziativa mi sono subito attivata perché credo sia un segnale importante. Spero che anche nella mia città nascano presto iniziative simili».
Tra i vari gruppetti che lavorano diligentemente notiamo una persona dal passo rapido e deciso che salta dall’uno all’altro, controllando, dando istruzioni, correggendo imperfezioni. Un volontario, con tono scherzoso, ci strizza l’occhio e dice sottovoce: «Lei è della Gestapo». Riusciamo a parlarle. È Cristina Savio, presidente della Circoscrizione 1, eletta con la lista civica Torino Domani. La manutenzione delle strade e del verde pubblico pare essere un suo cavallo di battaglia, in particolare qui, «nella vetrina della città»: «Spesso – ci dice – i cittadini si lamentano della lentezza e dell’inefficienza delle amministrazioni pubbliche, e le cose così però non cambiano mai… Il Comune pulisce e dopo un mese è di nuovo tutto come prima…». In questo senso, secondo lei, «il supporto di cittadini volontari diventa fondamentale per permettere di preservare la bellezza della città e la salute dei suoi abitanti». Così si compie il passaggio da un atteggiamento passivo di attesa a «un senso di responsabilità diffusa e di cittadinanza attiva».
Mentre interagiamo con Savio intravediamo un commerciante di libri che conosciamo di vista e troviamo simpatico, anche lui attrezzato di vernice e pennello. Scambiamo due chiacchiere con lui su quello che sta succedendo: «In fin dei conti lavoro qui tutti i giorni, questa è casa mia, quindi mi sembra giusto dare una mano per tenerla pulita. Questo colore inoltre è molto gradevole da stendere: è esattamente lo stesso di prima – il Comune ha i codici colore di tutta la città e ci ha fornito quello delle arcate – ed è estremamente spesso, quindi con poche pennellate ogni traccia di quello che c’è sotto scompare del tutto».
Sul sito del comune di Torino apprendiamo effettivamente dell’esistenza di un Piano del Colore, nato nel 1979 in seguito alla “riscoperta del valore del decoro e della coerenza del paesaggio urbano”. L’applicazione pratica del Piano è affidata a un apposito Ufficio Colore, che agisce in collaborazione con la Fondazione Contrada. Giacché con il libraio abbiamo un po’ di confidenza, ci concediamo una domanda più esplicita. Se capiti davanti a una scritta più politica di cui condividi il contenuto, per esempio una scritta antisessista o antifascista, come ti comporti? «Guarda – risponde – le scritte sui muri esistono da sempre, mica le abbiamo inventate noi oggi…». Nel lampo di un millisecondo, pensiamo a Pompei e ai suoi muri ricoperti di saluti, complimenti, motti spiritosi, sospiri d’amore e fantasie erotiche, di Priapea, di ingiurie e oscenità, di riferimenti al quotidiano e all’attualità, rivolti a tutti e comprensibili da tutti; ci vengono in mente anche le battaglie, combattute sui muri di questa stessa città, tra i motti fascisti e le parole d’ordine della Resistenza. Poi, come un colpo di scure, arriva la conclusione: «… ma per me, qualunque cosa dica, una scritta su un muro è sempre vandalismo».
Poco più in là, sull’altro lato della strada, altre due persone stanno lavorando di pennello: una di loro sta cancellando una scritta contro i Cpr, mentre l’altra sta cancellando una grande scritta blu: “Liberx Tuttx”. Una di loro dice di essere proprietaria di «uno degli appartamenti più belli di Torino, qui sotto i portici», dove regolarmente organizza «eventi con ospiti internazionali», i quali, a suo dire, immancabilmente le chiedono: «Ma che razza di portici sporchi avete?». Anche per lei questa situazione «è una vergogna». E, in ogni caso, sostiene con tono esperto da grafologa, «sono sempre le stesse dieci persone che scrivono. Si vede benissimo dallo stile». La vediamo coprire di vernice, a colpi di pennello che non tradiscono alcuna esitazione, la scritta “La lotta è fica”.
Pensiamo di aver sentito abbastanza e ci apprestiamo a tornare verso casa, quando vediamo poco più in là un altro venditore di libri usati che conosciamo e apprezziamo per la sua cordialità. Decidiamo di salutarlo prima di andar via. Lui, però, non sta prendendo parte all’iniziativa. Con sguardo dolce, ci dice che i graffiti non gli danno alcun fastidio. E poi aggiunge, con tono serafico: «Nella morale dei writer, è risaputo, non si scrive mai sopra le scritte degli altri. E qui su via Po non c’era più spazio. Ora che gli abbiamo imbiancato la lavagna, le persone potranno tornare a lasciare nuovi messaggi, a esprimere liberamente la propria creatività». Ce ne andiamo via risollevate dalle sue parole, immaginando di trovarci in un mondo parallelo nel quale tutte queste persone volenterose si siano ritrovate allo scopo di liberare nuovo spazio per l’espressione spontanea.
Tornando su via Po nei giorni seguenti, notiamo che, a differenza delle rosee previsioni dei promotori, i muri dei portici non sono stati ripuliti in un paio d’ore: una parte delle colonne si presenta perfettamente tirata a fresco, ma la maggior parte dei graffiti è rimasta esattamente al suo posto.
A un certo punto il nostro sguardo si sofferma su un dettaglio bizzarro: di alcune scritte sono state cancellate solo le estremità, mentre le lettere centrali sono rimaste visibili. Il risultato sono delle scritte mozzate e incomprensibili. Andando a osservare più da vicino capiamo cosa è successo: nella fascia centrale le arcate presentano una scanalatura di colore leggermente più chiaro. In alcuni casi i graffiti attraversavano queste scanalature, ma i volontari hanno in dotazione solo il colore del codice corrispondente alla parte esterna della colonna e sono vincolati al divieto di violare i dettami del Piano del Colore. Così sono costretti a lasciarle intatte. Fantastichiamo siano l’opera di un volontario appassionato di Nanni Balestrini, che smembrando e rendendo illeggibile il testo di quei graffiti, contesti l’autoritarismo implicito del linguaggio stesso, aprendo le porte delle loro possibili significazioni all’immaginazione dei passanti.
Poco oltre, un enorme graffito nero di recente fattura ricopre il muro d’ingresso del rettorato dell’Università di Torino. Scopriamo dai giornali che si tratta di un gesto di denuncia degli accordi tuttora esistenti tra università torinese e Leonardo (primo produttore di armi nell’Unione europea, in stretta connessione con il sistema militare-industriale di Israele). Se non fosse opera di studentesse e studenti in contestazione, bensì di un writer di fama internazionale finanziato da Fondazione Contrada, la cittadinanza attiva potrebbe legittimare questa azione come un omaggio all’action painting di Jackson Pollock, o come un tentativo di dare concretezza a quella che le istituzioni culturali chiamano “vocazione contemporanea e internazionale” della città di Torino. (alessandra ferlito, lucio serafino)
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