Qualche giorno fa sono stato ufficialmente convocato presso il bar dei cinesi, sulla via Emilia, dai miei due amici e compagni Rino e Carolina. Era un po’ di tempo che non li vedevo. Dopo qualche convenevole sono passati al dunque; mi hanno fatto accomodare e mi hanno comunicato solennemente: «I compagni ormai ci fanno schifo; sono dei vigliacchi e non vogliamo più avere niente a che fare con loro. Punto». Immaginavo le ragioni della loro incazzatura e ho intuito anche il motivo per cui ci hanno tenuto a comunicarmela con tutti crismi dell’ufficialità. Rino e Carolina non sono due tizi di passaggio, hanno un’età e una storia importante di militanza; volevano un testimone che ascoltasse le ragioni della rottura di un rapporto quarantennale – qualcuno che almeno capisse di che stessero parlando. Il fatto che due come loro arrivino a dire quelle cose, rende bene il sapore amarognolo di un clima, di una stagione e, se vogliamo, di una grande sconfitta collettiva che questa volta matura non per colpa dei teoremi giudiziari o dei massacri di piazza, quanto proprio sul terreno del pensiero critico – quello sul quale ci consolavamo del nostro essere minoranza cronica (siamo pochi ma quanto ragioniamo bene…).
Rino e Carolina sono contro l’obbligo vaccinale, senza se e senza ma. E non capiscono come sia possibile per una cultura “antagonista”, non riuscire a individuare nel green pass un salto quantico in termini di controllo e disciplinamento sociale. «Se non si indignano per una simile enormità, i comunisti non servono più a niente; anzi, sono dei traditori dei loro ideali; e se tradisci su questo terreno, puoi tradire sempre; perciò non vogliamo più averci a che fare; sono una storia finita, sono fuori dalle contraddizioni reali».
Io ascolto, annuisco, faccio la mia parte di testimone (non neutrale), sento incombere sulle mie spalle ultracinquantenni tutto il peso delle sconfitte antiche, fortemente aggravato da questo scenario nuovo, soffocante e inedito che stiamo affrontando. Il bar marca un confine invisibile tra il dentro e il fuori: noi tre stiamo all’esterno, in quanto non vaccinati. Oggi è il primo giorno di entrata in vigore del green pass.
Il bar dei cinesi – io lo etichetto ancora così ma ne gestiscono una ventina in città – sorge in un luogo di tragica bruttezza. Sono abituato ad andarci la domenica mattina, sul presto, verso le sette, quando l’aria è ancora un po’ pulita e la via Emilia è sgombra del suo consueto carico di mezzi di ogni tipo – dai Tir alle biciclette scassate. Siamo un passo fuori città, in mezzo ai capannoni di Modena Ovest, la zona industriale che si è sviluppata negli anni Settanta a partire dalla vecchia gloriosa zona artigiana. Cento passi più in là si intravede l’insegna di una grande multinazionale svedese (perché poi Modena è così: iper-provincia ma con la produzione e i fatturati non si scherza). Dall’altra parte della strada una grande azienda di motoriduttori, dal rassicurante nome modenese, di quelli che evocano le dinastie familiari e le leggende di ascesa sociale, ma che è da anni in mano a un fondo svizzero-americano o non so cosa; uno di quei fondi che possono decidere di chiuderla, quella storia industriale, dalla sera alla mattina, con un messaggino. Di fronte un “Ital Noli Spedizioni Internazionali”, ricorda che questo è ancora uno dei cuori pulsanti dell’export italiano; poco lontana una sala Bingo. Un panorama anonimo: la Via Emilia è il filo rappezzato che regge queste perle suburbane. Il bar sta dentro un brutto parallelepipedo in cemento che affaccia sulla striscia d’asfalto che collega Modena a Reggio, quell’asse meccanico emiliano che ai tempi d’oro fu un eldorado industriale studiato in tutta Europa. I baristi cinesi sono totalmente modenesizzati; viene la nostalgia degli oggetti kitsch o dei calendari in mandarino che si potevano vedere un po’ di anni fa; adesso tutto è tristemente indistinguibile e grigio, come l’umore di questi tre convenuti al tavolino.
«Stiamo andando alle manifestazioni dei no-vax, c’è di tutto dentro, lo sappiamo, va bene, ma che dobbiamo fare? Portiamo cartelli con le nostre parole d’ordine, stringiamo rapporti con persone nuove che non conoscevamo; il novanta per cento è composto da uomini e donne normali, che non hanno mai fatto politica, che hanno votato Cinque Stelle, gente che si preoccupa dei figli; noi riusciamo a parlare meglio con loro che con i “nostri”; i compagni sono corsi tutti a vaccinarsi, per paura di rovinarsi le vacanze, senza un minimo di confronto critico, collettivo, hanno semplicemente aderito alla chiamata del governo; come fai a rapportarti a gente così superficiale? Vogliono solo evitare guai, polemiche, interrogarsi su questioni troppo grandi…». Io allargo le braccia, abbozzo una difesa d’ufficio: «Calma, non buttiamo tutto in vacca. I compagni sono anche quelli che generosamente si espongono, mettono la faccia e la vita sulle questioni più spinose; quanti di quei bravi piccolo-borghesi che vengono ai cortei guidati dai commercianti, sarebbero stati in prima linea a difendere il popolo delle carceri, la memoria delle vittime dell’8 marzo? I compagni l’hanno fatto, sono stati coraggiosi».
Quando vengo io al bar dei cinesi – la mattina presto – gli unici avventori sono squadre di operai guidate da un padroncino o da un capomastro, che scendono assonnati da furgoni e camioncini e si fermano lì, lungo la strada, a fare colazione, con un bicchiere di bianco e uno gnocchino al prosciutto. Sabato, domenica, cambia poco, l’esercito dei posatori-piastrellisti-
«Lo sappiamo che i compagni fanno anche battaglie coraggiose di minoranza, come quella sul carcere. Gliene diamo atto. C’eravamo anche noi ai presidi davanti a Sant’Anna. Ma alle volte sembra che cerchino l’eccezionalità, l’essere alternativi e minoritari a tutti i costi per sentirsi vivi, importanti; poi, davanti alle preoccupazioni della gente, del popolo, delle persone semplici, storcono il naso, voltano la faccia. Riescono ancora a crearsi dei micro-circuiti di intervento su questa o quella questione, ma non sanno assolutamente come rapportarsi alle masse. E i comunisti senza questo rapporto, non servono a niente. È per questo che non vengono ai cortei anti-green pass – neanche per portare un punto di vista diverso, meno scontato; non lo fanno perché è faticoso parlare con le persone “normali”, non sanno più come si fa. E paradossalmente danno di sé un’immagine totalmente omologata su una questione fondamentale di libertà come i vaccini, che bene o male riguarda tutti, pur pretendendo di rappresentare una voce alternativa su qualsiasi altra questione super-minoritaria. Una bella schizofrenia».
Io mi sento in colpa, con la mia tazzina in mano. Anche io ho sempre disertato quei cortei; scoprirmi a marciare con un fascista in incognito al mio fianco mi farebbe vergognare. Del resto – condivido con Rino e Carolina – non si può non andare in piazza solo perché ci va gente di destra: significa regalargliele, quelle piazze, nonostante l’humus prevalente della componente di massa, non organizzata, sia apolitica e genericamente “costituzionale”. E quindi, che si fa? Ci fosse almeno qualche mensola, dentro, con un bel Budda grasso, o un Infante della buona fortuna, o un gatto in plastica che muove la testa, così, tanto per distogliere gli occhi dallo sguardo implacabile di Carolina. Niente, i cinesi hanno fatto piazza pulita del loro ciarpame per esporre quello autoctono – calendario New Fava Motors e pacco di giornali Modena Viva.
Parliamo per quaranta minuti, senza peli sulla lingua, com’è giusto tra compagni. Ci salutiamo, non mi fanno neanche pagare (come se il costo della consumazione fosse compreso nella sfuriata). Guardo quello scorcio di via Emilia, la concessionaria di auto di lusso, il carrozzaio nel vicolo, la lunga fila di capannoni che tra un paio di settimane ricominceranno a licenziare vecchi vaccinati pseudo-garantiti e assumere ragazzi precari vaccinatissimi. Le mense aziendali lavoreranno a scartamento ridotto: non pretenderai mica di venire meno ai tuoi doveri di obbedienza sociale e poi andare anche a mangiare, eh? La calura comincia a opprimere le idee, l’aria si intorpidisce e ristagna, come in tutta la pianura padana. Il giovane barista cinese è uscito dal locale: accarezza e si rimira una Kawasaki d’epoca parcheggiata là davanti, che sarà la gioia della sua vita. So che stasera non andrò al corteo contro il green pass e le mie reticenze mi irritano. Alla fine sono anch’io uno snob? Mi rifugio dietro l’ortodossia delle frequentazioni per non sporcarmi le mani? Se il proprietario del bar avesse almeno un cognome importante (favoleggio), quella di Rino e Carolina passerebbe alla storia come “La Solenne Dichiarazione di Bao Yiang”. Ma mi rendo conto che le facezie non possono coprire la gravità di questa fase, il senso di inutilità della “compagneria” sopravvissuta. Stavolta non possiamo prendercela con i giudici cattivi e gli sbirri manganellatori: stavolta stiamo facendo tutto da soli, nell’ignavia, nell’imbarazzo, nella estenuante incapacità di cogliere il senso delle cose. (giovanni iozzoli)
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