Quando G. durante l’assemblea ricorda di aver fatto per tanto tempo “il teatro”, riferendosi ad Arrevuoto – progetto pedagogico e teatrale attraversato ormai da due generazioni di giovani rom e italiani – ci dice, in fondo, con voce forte e chiara, che far parte di un territorio è un intreccio indissolubile di relazioni, esperienze, emozioni, conflitti e che le comunità sono fatte da persone che continuamente s’incontrano, si scontrano, si mettono insieme e spesso fanno nascere qualche cosa. G. fa emergere un elemento tanto semplice ed essenziale quanto ignorato e calpestato, è la ricchezza della vita che non si ferma mai. Lui oggi ha venticinque anni, è rom cittadino italiano, ha due figli e vive nel campo di Cupa Perillo. È di Scampia, è di Napoli, è italiano, parla italiano, napoletano, romanes. Come lui, decine di giovani uomini e donne che sono nati qui e che ritengono che questa sia anche “casa loro”, nonostante tutto.
La Procura della Repubblica il 17 luglio scorso ha notificato a un numero imprecisato di famiglie un’ordinanza di sgombero che prevede la liberazione dell’area di Cupa Perillo entro l’11 settembre, ha posto sotto sequestro le aree, in particolare sotto la linea dell’asse mediano, e il giorno seguente ha provveduto all’abbattimento di diverse baracche ritenute erroneamente disabitate. Tradotto: alcune famiglie che la mattina si erano allontanate per andare a lavorare, sono tornate e non hanno più trovato la casa.
Qualcuno ha espresso sui social grande soddisfazione per la riuscita dell’operazione che, assicurano, è solo all’inizio e non si fermerà. Difficile per altro che potesse non riuscire, con una ruspa non è facile competere e lo spiegamento di forze dell’ordine è stato davvero imponente. Lo è da tempo in verità, come più volte segnalato da osservatori che denunciano come questa dimostrazione di forza per il ripristino della legalità da parte dello stato sfiora e raggiunge talvolta la violazione dei diritti umani.
Dimostrazione di forza non vuol dire presentarsi con i carri armati a Cupa Perillo, naturalmente. Vuol dire però folti nuclei di polizia municipale aggirarsi per ore su quei terreni e tra quelle baracche – che saranno pure fatiscenti, ma sono case per chi vi abita da tempo – senza spiegare il motivo della presenza, senza proprio guardare in faccia a nessuno, se non per fare pressione costante sulle persone, spaventandole ed esortandole ad andarsene via con le proprie gambe, tagliando continuamente la corrente, facendo sequestri di mezzi di trasporto. Una poliziotta un giorno affermò tranquillamente che tagliare la corrente era per il bene stesso dei rom.
In nome della riqualificazione della zona, tutto è permesso. La riqualificazione non guarda in faccia a nessuno e tantomeno questi personaggi scomodi, fastidiosi, questi zingari che per trent’anni sono stati lì senza nessun titolo. Peccato dover smorzare questo entusiasmo, espresso anche da alcuni consiglieri comunali e municipali, che invece in quanto figure istituzionali dovrebbero conoscere le responsabilità che ha un’amministrazione pubblica. Dovrebbero sapere che nessuno, seppure in condizioni di abusivismo e precarietà, può essere sgomberato coattivamente (la pratica finora più diffusa) o in maniera indotta (che è la nuova modalità, vedi il caso Gianturco) senza che gli venga fornita prima di tutto una collocazione temporanea e poi addirittura una soluzione definitiva, un piano abitativo sul lungo termine. Senza ricorrere ai principi di umanità che forse possono suonare vaghi, ma restando sul piano della legalità che tutti ci tengono a sbandierare, questa sistematica discriminazione che i rom subiscono è proibita dalle leggi internazionali e regionali sui diritti umani, così come ripetuto ormai all’infinito da piccoli e grandi enti (ci siamo meritati l’attenzione di Amnesty International per le condizioni dei campi rom a Napoli).
Le comunità rom di Cupa Perillo possono contare su una rete estesa, cittadina e nazionale, di non rom che ritengono che questa sia una lotta comune. Da quindici anni producono documenti, studi, approfondimenti, comparazioni con altre realtà italiane o europee in cui il superamento dei campi è stato possibile. In epoche in cui il tema della partecipazione dal basso non era ancora una rivendicazione di nessuno, nel campo di Cupa Perillo, nelle verande delle baracche, in cerchio, al freddo, al caldo, alla presenza di una platea inconsueta e trasversale – giovani vecchi donne bambini neonati rom e non rom – si affrontavano discussioni sull’abitare, su come pretendere una videosorveglianza per risolvere il problema degli sversamenti illegali di rifiuti spesso tossici, sull’introduzione della raccolta differenziata e sul prelievo ordinario dei rifiuti domestici che non è mai stato concesso. I rom stessi pagano ditte private per liberarsi di cumuli di rifiuti che raggiungono livelli disumani, rifiuti in parte prodotti da loro stessi – chi è che non produce rifiuti nelle proprie case? –, in parte sversati da italiani impuniti vista la marginalità della zona, in parte accumulati a causa del rifiuto ostinato dell’Asia di procedere al prelievo ordinario. Qui semplifichiamo, ma la mole di documentazione prodotta negli anni e sottoposta alle varie istituzioni e all’opinione pubblica è veramente notevole.
Assemblee, coordinamenti, petizioni popolari, dibattiti pubblici, articoli, tavoli tecnici, presidi, richieste di co-progettazione, provocazioni, coinvolgimento di enti internazionali, eventi culturali di rilievo, azioni creative nello spazio pubblico, centinaia d’idee e pratiche a confronto, senza finanziamenti né supporti istituzionali, fuori dai progetti per intenderci. Sono stati anni importanti e anche coraggiosi in cui molti hanno creduto di poter vedere la rigenerazione di un territorio non accontentandosi di una sistemazione al ribasso – basta che ci stanno acqua, luce e servizi igienici… –, ma proponendo la progettazione di modelli alternativi in una zona che conserva residui di spazi verdi che possono essere valorizzati, e che ha avuto a disposizione molte menti e molte braccia, a partire dalla volontà e disponibilità dei rom stessi di essere artefici del proprio cambiamento.
Tutto questo non ha trovato interlocutori in grado di accogliere, anche correndo qualche rischio, la necessità di articolare interventi più complessi, di uscire da una logica semplificata ed emergenziale. La situazione è rimasta nell’immobilità fino a oggi, tranne che per il sussulto di un’ipotesi sfumata di sette milioni di euro per un progetto con qualche spiraglio di innovazione, ma che restava ancorato ai criteri che normalmente si applicano ai rom: temporaneità, mono-etnicità, sottodimensionamento degli alloggi. La Commissione Europea ha chiesto qualche chiarimento in merito, e poi lungaggini burocratiche e l’incomunicabilità tra la Regione e il Comune ha determinato la perdita del finanziamento.
Ci troviamo oggi a dover fronteggiare non solo uno sgombero ma anche una mentalità istituzionale che sembra non avere alcuna memoria, per non parlare del rispetto verso le persone, che oscilla tra la più cinica burocrazia e il buonismo assistenziale, e che però in fondo è al passo con i tempi, rispecchia un clima culturale diffuso, povero e impaurito.
L’assemblea di qualche giorno fa a Cupa Perillo, in cui si sono mescolate rabbia, speranza, tristezza e rassegnazione, anche per l’umiliazione di essere trattati come gli ultimi degli ultimi, come se uno non fosse in grado di intendere e di volere, a metà tra l’esclusione sociale e la discriminazione etnica, ha visto confrontarsi persone che per ripensare questo territorio ci hanno messo l’anima oltre che la testa. Persone anche molto anziane che hanno visto l’arrivo dei rom a Scampia negli anni Settanta, per chiarire la storicità della presenza se mai ce ne fosse bisogno, e che da allora non hanno avuto dubbi sul fatto di far parte tutti di uno stesso territorio, paese, mondo.
La volontà espressa dalle comunità è quella di non pensare al si salvi chi può, ma alzare il tiro e non muoversi finché non si ottengono risposte adeguate e dignitose. Resta da vedere fino all’11 settembre quali e quante umiliazioni si è disposti a sopportare. Resta la fine di un’epoca, in cui il paesaggio ai confini con Scampia cambierà, le macchine potranno finalmente attraversare indisturbate, il prelievo dei rifiuti sarà ordinario e le opere pubbliche avranno il risalto che meritano. Sarà però difficilissimo incontrare quei volti che, a dispetto di ogni ordinanza e sequestro amministrativo, fanno parte del luogo e faranno per sempre parte della storia di quel luogo. Una storia positiva di una piccola avanguardia che ha provato con creatività e passione a cambiare il corso degli eventi. (emma ferulano)
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