Nel settembre 2012, per celebrare la cinquantesima uscita di Napoli Monitor, abbiamo preparato un “numero speciale” chiedendo a redattori e collaboratori del giornale di scrivere dei racconti sulla loro generazione, e ad altrettanti disegnatori di illustrarli a tutta pagina. Ne sono venuti fuori otto pezzi autobiografici – in un arco anagrafico che va dai venti ai quarant’anni – che pubblicheremo nel corso di questo mese di luglio, a distanza di quasi due anni dalla loro scrittura.
La strada che porta a Santa Lucia è una lunga striscia di sole, interrotta a tratti dall’ombra sporgente di qualche balcone. È un caldo che consuma, anche se siamo vicini alla sera. Il mare è lì, prima di svoltare l’angolo a destra, ma non porta vento. Nemmeno un’increspatura, sembra una tavola immobile a far coppia con il colore del cielo. Sergio mi aspetta, sono in lieve ritardo. Affretto il passo, mentre la camicia di lino non ferma il sudore. È una sera estiva senza pretese, al termine di mesi impegnativi. Ci si vede per un saluto che precede la partenza per le vacanze. Sorrido, se penso al nostro primo incontro. Poco dopo il G8 di Genova, erano stati arrestati diversi compagni, con accuse gravi quanto infondate. C’era da muoversi, preparare un appello e trovare adesioni. A me toccò, per competenza sulla materia credo, contattare Sergio. Lo rintracciai al telefono di casa, sul numero fisso. Per quanti passi avanti abbia fatto, non ho mai superato i limiti di una educazione rigida. L’uso del lei per le persone più adulte è automatico, specie quando sono in imbarazzo: «Professor Piro, la chiamo perché abbiamo preparato un appello contro gli arresti, ci farebbe molto piacere la sua adesione». Non ci fu bisogno di attendere risposta, mentre ancora parlavo Sergio disse: «Ditemi cosa posso fare per voi, come posso aiutarvi». La voce risuonava acuta e netta, come tante volte avevo sentito nei suo interventi pubblici. «Professore, se potesse intervenire anche alla conferenza stampa sarebbe davvero un’ottima cosa». Un attimo di silenzio, poi come il rumore di un sorriso e la voce squillante che dice: «Senti, accetto se mi dai del tu, come si fa tra compagni, e la smetti di trattarmi come un vecchio monumento». È iniziata così questa insolita amicizia, con il mio inutile imbarazzo e la sua immediata disponibilità. E scoprire così quello che solo in parte immaginavo, che Sergio, protagonista con Basaglia nei movimenti che hanno chiuso i manicomi civili, è capace di schierarsi immediatamente a fianco di una lotta ma anche di tenerti un pomeriggio seduto nel suo studio, a spiegarti l’etimologia di una parola o le principali abitudini dei gatti. Un compagno curioso, pronto a mettere a disposizione i suoi saperi, con entusiasmo e con pari impegno, sia per un incontro con gli studenti universitari che per un articolo da pubblicare su un giornalino di poche copie, stampato in carcere.
Sergio è molto affascinato dal movimento no-global che segue con attenzione e che in parte è oggetto delle riflessioni del suo lavoro recente, l’osservatorio sull’abbandono. Una serie di progressive rotture e delusioni lo ha portato ad allontanarsi tanto da Psichiatria democratica quanto a prendere le distanze dalla stagione di governo bassoliniano. Sul governo della sanità in Campania e sullo stato dei servizi di salute mentale è un critico severo e attento. L’abbandono del sofferente psichico da parte dei dipartimenti di salute mentale, divenuti luogo di conquista e di potere più che di offerta di servizi e aiuto, è la misura oggettiva della qualità di un’azione politica. Questa sua posizione severa e pubblica lo rende tanto rispettato quanto isolato. Del movimento lo affascina questa radicale, e forse un po’ ingenua, messa in discussione del potere, l’assenza di mediazioni e anche il tentativo di sperimentare nuove forma di lotta. E di questo movimento si sente pienamente parte, lui che con il potere ha cominciato a confrontarsi molto presto, quando fu licenziato dall’incarico di direttore del manicomio civile non appena ne avviò l’apertura.
Sono stati mesi impegnativi, ripeto, e attendo questo intervallo tranquillo che mi rigenera. Seduti tra le chiacchiere di un’estate ancora a metà, a fare progetti per il futuro. Sono momenti rari, più facile vedersi per le emergenze che per il gusto di una pausa. Qualche mese prima siamo stati assieme in una visita ispettiva nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Sant’Eframo, quello all’angolo di Via Salvator Rosa. Una terra straniera tra carcere e manicomio, dominata da uno psichiatra divenuto ricco, a colpi di perizie, sulla pelle degli internati. Un potente, che nessuno vuole sfidare, avvezzo a navigare nella ragnatela delle commissioni disabilità delle Asl. Ho chiesto a Sergio di venire con noi, in visita parlamentare. Le scale di ingresso di Sant’Eframo gli spezzano il fiato, ma una volta dentro è un fiume in piena. La sua voce risuona netta nei corridoi che puzzano di piscio e abbandono. In una cella lercia, che sembra un cesso pubblico, un uomo nudo in un angolo, a piedi scalzi nei suo escrementi, un mozzicone a consumargli le dita ingiallite. Ci fermiamo, tra gli sguardi imbarazzati di chi ci accompagna. Chiediamo che sia aperta la cella. Sergio entra, si inginocchia di fronte a quell’uomo, parla e gli tende la mano. L’altro tira su lentamente la testa, ricambia lo sguardo. Come trovare un momento di umano in un angolo di inferno. «Stringi le mani, il contatto è importante – così mi ha ripetuto –, devi riconoscere l’umanità di chi soffre». Al termine della visita, un internato, con il quale ci eravamo fermati a parlare in precedenza, ci segue lungo la rete di protezione del passeggio. Grida, salutandoci: «Ciao grande Sergio».
Mi separano pochi metri dal portone della sua casa, a metà tra il mare e la strada. Un amico è già arrivato, ma manca così poco che non ha più senso affrettare il passo. Ho in borsa il suo ultimo libro, devo ancora terminarne la lettura, ma sono a buon punto. La semplicità di comunicazione di Sergio non la trovi nei suoi libri, almeno a una prima lettura. Perché rigoroso e sofisticato nell’uso delle parole. “Trattato della ricerca diadromico trasformazionale”, cazzo, ti chiedi, ma che roba sarà? Poi cominci leggendo che dia-dromos significa proseguire camminando a zig-zag e sembra già più comprensibile, anzi simpatico come il profilo del gatto che troneggia in copertina. Una lettura impegnativa. Sergio mi ha chiamato, fissato un incontro lungo un’ora, perché aveva piacere a parlarne e a regalarmelo. Cerca il confronto con saperi diversi dal suo, ne fa un elemento della sua metodologia di ricerca, spiega che «la connessione del sapere è una pratica del possibile». Confesso che non l’ho letto subito, avevo da finire altri libri accumulati nel tempo e altri ancora lasciati a metà. Ma in questi giorni più sereni ho ripreso a leggere con regolarità, come testimoniano i mille fogliettini a modo di segnapagina nel libro che porto in borsa. Questa lettura giungerà alla fine, perché al dono dell’attenzione bisogna rispondere con l’attenzione per il dono. Ho anche evidenziato un passaggio che vorrei discutere, dice: “Come il manicomio di un tempo, il prevalente modo dell’assistenza psichiatrica italiana, basato sul binomio abbandono/intervento, è un crimine contro l’umanità”. Ma non sarà stasera, avremo altre occasioni.
Mi fermo qualche in minuto in più, il telefono squilla mentre sto per varcare il portone. Un giornalista sta chiudendo il suo articolo sul carcere, mi chiede, un po’ disperato, alcuni dati. A memoria gli elenco presenze, capienze, suicidi; per il resto lo rinvio a un paio di siti internet. Troppo difficile, da solo non riesce. Aspetto che trovi il link, lo guido telefonicamente. Perdiamo qualche minuto, per fortuna che aveva promesso una domanda breve. Finalmente ci riusciamo, abbiamo trovato i dati. Il suo articolo è salvo, la mia pazienza un po’ consumata. Mi accerto di regolare il telefono in modalità silenziosa, prima di varcare il portoncino. Emergenze a parte, non intendo rispondere più a nessuno. L’ascensore è di quelle vecchie, con la gabbia in legno e le porte che cigolano, sussulti a ogni passaggio di piano. Preferisco salire a piedi, le scale di marmo sono consumate, ma più rassicuranti. Sergio e Salvatore sono già nel pieno di una discussione di sistema, si volta alto, ma ogni tanto si apre uno spazio più terreno, un aneddoto, un dietro le quinte, un chiacchiera semplice. Questa sera manca Roberta, che compone con noi un solido, quanto insolito, terzetto di persone che si occupano di sofferenza psichica pur non essendo psichiatri (per fortuna, aggiungerebbe Sergio). In genere rispetta gli appuntamenti, anche se con puntuali ritardi, ma stasera è assente giustificata. Le sue vacanze sono già cominciate, strappate a una sequenza indisponente di lavori a progetto. Sistemato sulla poltroncina che dà le spalle alla libreria, seguo senza intervenire. In parte è il caldo, ma, in realtà, preferisco ascoltare. Di fronte alla cultura sconfinata di Sergio, che spazia da Hegel alla cucina sarda, la mia timidezza diventa quasi imbarazzo. Questo caldo è il contrappasso di un inverno freddo come pochi. Tanto gelido che durante un intervento pubblico organizzato a piazza Dante, Sergio fu costretto ad andarsene prima della fine, perché la piccola stufa elettrica era incapace di una seria difesa dal freddo. La discussione prende una piega malinconica quando si parla di prospettiva politica e futuro prossimo. Uno scenario di desolazione al quale fatichiamo a contrapporre speranze. Ma c’è un movimento, ci sono studenti che protestano e occupano, operatori sociali che si interrogano. Ci sono lotte diffuse che offrono speranza, almeno di vita se non di vittoria.
Sono trascorse due ore, quando esco dal portone, con un sereno senso di leggerezza. Fuori il caldo non sembra essersi arreso, il vento dal mare è appena una brezza insufficiente a scalfire il silenzio. Ripiego verso il ritorno, con in testa una lista incompleta, di cose da fare e libri da leggere. È l’abitudine ereditata dalla scuola, l’anno comincia a settembre, non a gennaio. L’estate è il momento dei nuovi programmi, dei desideri che non vogliono più attendere, delle promesse a me stesso che non manterrò. Ci rivedremo a settembre, per riprendere la lotta per la chiusura dei manicomi giudiziari. Sulla porta, al momento del saluto, Sergio mi ha detto, riferendosi a una persona di comune conoscenza: «Non ti fidare, è un versipelle». Ripeto, per farne memoria, questa parola inconsueta, mentre aspetto l’ultima corsa della metro che mi riporti a casa, in attesa di un vento che non c’è.
È una notte dei primi di gennaio. Mi sveglia il telefono, è la suoneria di un sms. Di riflesso allungo la mano sul comodino, leggo con il sonno ancora negli occhi. Il messaggio comunica la morte di Sergio. La notte diventa lucida. La morte di chi ha vissuto pienamente è un fatto naturale, certo, ma questo non rende meno amara l’assenza. Mi alzo, nel buio raggiungo lo studio, accendo una luce. Nonostante il disordine della libreria, il ripiano dei libri importanti è ancora composto nel suo caos. Tiro fuori il primo libro che incontro, pesante e ingiallito. Vado direttamente all’ultima pagina, dove ancora spunta un segnalibri. E leggo questo, come l’ho letto tante volte, ma provando a mettere un respiro in più tra una frase e l’altra. “Quale che sia il contributo che l’analisi semantica del linguaggio possa dare, a livelli diversi, alla clinica psichiatrica, alla psicopatologia teoretica, all’antropologia fenomenologica, non v’è dubbio che ogni via di accostamento all’uomo schizofrenico deve passare attraverso il linguaggio, poiché v’è in esso ogni indizio e ogni espressione che possa rivelarlo nella sua interezza. Il linguaggio schizofrenico trascina con sé, in una sovrapposizione sconcertante e peculiare, il segno di una metamorfosi disumana e l’espressione di un fallimento tragicamente umano. Nel paesaggio devastato dalla schizofrenia le rovine delle cose familiari e dei simboli umani sono spietatamente investite dalla luce irreale e minacciosa di un sole estraneo: là dove l’assurdo e il comprensibile, l’atroce e il patetico, il mutamento pauroso e la ricerca di pace, la trasformazione surreale dei simboli e la semplicità degli affetti, si mescolano senza fondersi e si sovrappongono senza unificarsi, in una contraddizione che non si risolve, in una tensione che non si allenta, là è la schizofrenia. Il linguaggio è la sua cifra misteriosa e inconfondibile”.
Un brano che ho letto già molte volte. Per non dimenticare, mai, che lo sforzo per intendere il linguaggio, in apparenza incomprensibile, di chi soffre è parte essenziale di una lotta. Ascoltare chi possiede una grammatica delle emozioni differente dalla nostra è rimedio al distratto cinismo della vita quotidiana. Sento uno spazio vuoto, dentro di me, dove si rovescia il silenzio. Vorrei trovare le parole opportune per riempirlo. Il mare riflette ancora la luce della luna, mentre accendo il portatile per mettermi a scrivere. (dario stefano dell’aquila)
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