Sarà possibile visitare fino a domenica 5 settembre al Museo di Roma in Trastevere, le due mostre dedicate ai fotoreporter Luciano D’Alessandro e Sandro Becchetti, che con i loro scatti hanno raccontato oltre cinquant’anni di storia sociale del paese.
È degli anni ’65-68 “Gli Esclusi”, il servizio di Luciano D’Alessandro sui pazienti dell’istituto psichiatrico Materdomini di Nocera Superiore diretto da Sergio Piro. Fu il rapporto tra il fotografo e quest’ultimo, medico e psichiatra tra i principali animatori di Psichiatria democratica, l’organizzazione fondata da Franco Basaglia, a rendere possibile le dure, scarne immagini realizzate nel manicomio, rispettosamente imperfette nella forma, che accendono di fatto per la prima volta i riflettori su una realtà volutamente occultata, dieci anni prima che la legge 180 ne sancisse la chiusura.
D’Alessandro poi seguirà da vicino il colera del ’73 a Napoli e il terremoto in Irpinia del novembre 1980. Nei primi scatti sembra trasparire l’incredulità della popolazione di fronte all’epidemia, mista alla vivace partecipazione dei più giovani intorno ai roghi, appiccati in strada come improvvisata misura di contrasto. Per il racconto del sisma, al contrario, è intatto il silenzio nell’impressionante fissità delle immagini.
Altri lavori, frutto della collaborazione con Gianni Berengo Gardin, si addentrano nelle trasformazioni che nella seconda metà degli anni Settanta mutarono, non senza squilibri, il lavoro e le abitazioni del sud Italia, tra alloggi angusti e cucine dotate di lavatrice, i volti fieri degli operai metalmeccanici, quelli un po’ meno delle donne impiegate nelle fabbriche tessili. «Ho fatto sempre la stessa foto», dirà poi il fotografo napoletano commentando uno dei suoi primissimi scatti – un disoccupato seduto su una sedia di paglia per strada, che si copre il viso con la mano – a suggerire gli intenti del proprio percorso.
L’attività di Sandro Becchetti, esposta in cinque sezioni al piano terra del museo, è incentrata sulla città di Roma e sulle lotte sociali e politiche che l’hanno attraversata negli anni Settanta. Gli scatti, in diversi formati, raccontano le stagioni della contestazione operaia e studentesca: le imponenti scritte a vernice che riempiono il vuoto delle periferie, il tunnel che ripara dalla pioggia nel corso di una manifestazione e ancora volti, simboli e bandiere.
Parte dell’esposizione poi è riservata ai ritratti intimi e talvolta graffianti a volti noti dello spettacolo e della cultura, realizzati per la terza pagina del Messaggero e accompagnati spesso da preziosi e coloriti aneddoti. Sono scatti che rovesciano l’immaginario del paparazzo, chiesti con garbo, bussando letteralmente alla porta di casa e sempre sospese tra quel tratto forte del personaggio e la familiarità del contesto in cui sono scattate.
Una piccola sala è dedicata a Pasolini, Becchetti è tra i pochi a fotografarlo con dei ritratti. Tra questi, assieme agli ormai iconici primi piani, figurano alcuni in compagnia della madre. Difficile da dimenticare, nello scatto ai suoi funerali, la potenza della morsa che tiene strette due mani, cordone o semplice gesto, dettaglio, sembra trattenere ancora energia, fino a donarla all’intera immagine.
Dopo una lunga pausa in cui si dedica alla lavorazione del legno, Becchetti tornerà a immortalare con il suo bianco e nero gli anni Duemila, sempre nella Capitale, stigmatizzando una società all’apice di radicali trasformazioni, nella sua apertura globale, dinamica, accelerata ma forse più ferma, stordita e specchiata nel luccichio dei suoi sogni. “Mentre negli anni Settanta il mio obiettivo coglieva ed enfatizzava la rabbia delle facce e lo squallore sociale – è scritto su un pannello – oggi si ferma su atteggiamenti e particolari che mi sembrano evidenziare nelle persone un’attenzione al semplice mostrarsi piuttosto che a un progetto. Ma qualcosa verrà fuori anche da questo nuovo popolo. Quando e come io non posso dirlo. So però che oggi come un tempo per darsi appuntamento a Campo de’ Fiori si dice ‘ci vediamo da Giordano Bruno’. Non sotto a un monumento, ma accanto alla statua di un romano di Nola, bruciato vivo nel 1600 per aver predicato la tolleranza e la libertà di pensiero”.
Nel tempo dilatato di una mostra viene da ripensare all’uso attuale della fotografia d’attualità, al suo disperdersi e arrancare nel ritmo frenetico dettato dalle breaking news; emergono così in modo più chiaro alcune decisive linee di confine, che affiorano e più spesso spariscono durante l’esposizione, tra arte e impegno sociale, tra coscienza teorica e produzione, tra cosa va fotografato e cosa no, che contribuiscono a tenere vive le immagini e vicini i percorsi dei due fotografi, in un’unica grande galleria. (dario cotugno)
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