Dal 28 al 30 ottobre avrà luogo in Sicilia l’ultima tappa de La prigione e la piazza, la rassegna di libri e narrazioni da e sul carcere che dallo scorso maggio Monitor ha portato avanti insieme all’associazione Yairaiha e a tanti attivisti che si battono per tutelare le condizioni dei detenuti nel paese e per l’abolizione del carcere.
La rassegna si svolgerà tra Catania, Lentini e Palermo, con il seguente programma:
CATANIA – 28 ottobre, ore 17.30 in piazza Lanza (in caso di pioggia: Studentato 95100, via Gallo n.5). Interverranno: Sandra Berardi, Francesca De Carolis, Dana Lauriola, Nella Leone e Luca Sterchele.
LENTINI – 29 ottobre, ore 10:30 in piazza Umberto I. Interverranno: Charlie Barnao, Beppe Battaglia, Nicoletta Dosio e Riccardo Rosa.
PALERMO – 30 ottobre, ore 17:00 in piazza Ingastone (quartiere della Zisa). Interverranno: Charlie Barnao, Sandra Berardi, Giovanni Fiandaca, Alice Miglioli.
A seguire pubblichiamo un estratto dal libro Ergastolo ostativo. Percorsi e strategie di sopravvivenza, di Salvatore Curatolo, in uscita con la casa editrice Rubettino.
Curatolo è un detenuto sessantaseienne del carcere catanzarese di Siano, condannato all’ergastolo ostativo e che ha passato dodici anni in regime di 41bis. Il libro è una rielaborazione della tesi di laurea che Curatolo ha discusso nel luglio 2021, supportato dal professor Charlie Barnao, docente di sociologia all’università Magna Graecia di Catanzaro e delegato per il Polo universitario per studenti detenuti; Barnao presenterà il volume, insieme ad altri lavori da lui seguiti, a Lentini e Palermo.
2 – IL MIO CARCERE DURO
Quando mi viene disapplicato il regime del 41 bis siamo nel gennaio 2008; vengo appoggiato nelle sezioni di transito del carcere di Novara, per essere poi trasferito in un istituto dove c’è la sezione AS1.
Tutti i giorni alle 18:00 è il momento della conta, cioè il giro degli agenti per verificare se tutti sono rientrati dalle varie salette. Quando chiedo di poter fare la doccia, mi comunicano che è necessario aspettare qualche minuto per il cambio delle guardie. Alle 18:20 l’agente di turno mi mostra la stanza adibita a doccia accompagnandomi lungo un corridoio e mi mostra la porta marrone sulla sinistra. Finisco in dieci minuti e busso perché mi aprano: devo asciugarmi i capelli. Nessuno risponde, nessuno viene, quindi inizio a urlare. Dopo un po’ sento una voce: «Che cosa c’è?». Rispondo che devono venire ad aprirmi la porta della doccia ma l’agente mi fa notare che la porta della doccia non è chiusa: in effetti, giro la maniglia e si apre. Mi fermo per qualche secondo davanti alla porta e mi dico che il cervello mi si è spento. In realtà quello che mi dico è: «Coglione! Dopo tanti anni di perquisizioni per ogni uscita e per andare in doccia con la porta chiusa a chiave, il cervello ti si è appiattito e non sei riuscito a riconoscere la tua nuova condizione!». Che cosa mi era successo?! Che cosa stavo diventando?
2.1 – Sono un ergastolano ostativo
Sono un ergastolano ostativo. Sono stato condannato per diversi omicidi. Ricordo la prima sentenza di condanna all’ergastolo: era una sera di novembre del 1998, mi trovavo nel carcere di Ascoli Piceno, sezione 41 bis. La mezzanotte era passata da poco che mi chiamano nelle salette adibite per le videoconferenze. Fu rapidissimo: «Si condanna alla pena dell’ergastolo Curatolo Salvatore». In effetti ero rimasto solo io, perché due coimputati – già condannati all’ergastolo con sentenza definitiva per altri fatti – avevano scelto di essere giudicati con il rito abbreviato quindi nel processo eravamo rimasti io e un collaboratore di giustizia. Risalii nella mia cella: mi sentivo stravolto, con la gola secca. Avevo bisogno di bere e pensavo solo a mia moglie e a mia mamma. Ricordo benissimo quel 29 settembre del 2001. Alla radio passava 29 settembre degli Equipe84 e qualsiasi nisseno, quando sente questa canzone, risponde in automatico: San Micheluzzo! Lo feci anche io, pensando che a Caltanissetta era la festa del patrono, San Michele Arcangelo. È una festa molto sentita dalla mia famiglia: a pranzo festeggiavamo l’onomastico di mio padre, la sera eravamo tutti a vedere la processione.
La mattina di quel 29 settembre invece mi notificheranno la decisione della Corte di Cassazione: ero un ergastolano definitivo. Ovviamente ero già stato preparato dal mio avvocato ma la sorpresa fu che mi chiamarono per il colloquio e pensai: «Che tempismo! Mia moglie è così: non mi lascia mai da solo». La sorpresa fu invece che trovai mia figlia Valentina da sola. Ero in imbarazzo, non sapevo che cosa dire, come spiegare; Valentina voleva sdrammatizzare, mi diceva che aveva studiato tutto il processo e che essendo un processo indiziario avremmo fatto ricorso alla Corte Europea. Dopo un po’ però ci siamo messi a piangere. Non ho resistito, mentre Valentina piangeva e parlava e piangeva. Un’ora passa in fretta e non ho neanche potuto abbracciarla: quel maledetto vetro impediva qualsiasi manifestazione di affetto.
Che cosa significa “ergastolo ostativo”? Quello dell’ergastolo ostativo è un concetto di pena che lega il reo al momento del reato per sempre, nell’idea che non possa mai cambiare, è una visione che va contro qualsiasi legge fisica e cronologica, qualsiasi dato esperienziale, poiché è risaputo che “tutto scorre”, la vita scorre e inevitabilmente cambia l’uomo in meglio o in peggio, ma cambia. L’ergastolo effettivo significa, anzi significava (con un sospiro di sollievo si può iniziare a parlare al passato), che il condannato dovrà restare in carcere fino alla fine dei suoi giorni anche se ritenuto “meritevole” e “rieducato” senza poter fruire neanche di qualche ora di libertà, salvo non collabori con la giustizia. Parlare di resilienza in carcere, di chi è condannato alla pena dell’ergastolo effettivo (c.d. “ostativo” o quello “giurisprudenziale”), significa parlare di persone alle quali è stata inflitta una pena che non ha una scadenza definita. “Fine pena mai” si leggeva un tempo sui fogli matricolari, una prospettiva alla quale gli ergastolani resilienti devono trovare il modo di sopravvivere, migliorare la propria condizione e quella altrui.
Credo di poter dire che tutto è iniziato lunedì 17 febbraio 1992, nei passeggi del carcere Malaspina di Caltanissetta, dopo tre giorni che mi era stata notificata una custodia cautelare in carcere il 15 febbraio, mentre in realtà ero stato fermato a Torino il 14. Ero ai passeggi e sembrava che tutti mi conoscessero, la maggior parte di nome, attraverso i giornali. Accompagnato da Nunzio, mio grandissimo amico, mi presentai e dovetti stringere la mano a tutti. La prima volta che vidi camminare in fila per tre i detenuti pensai che fossero pazzi, non sapendo che da lì a poco tra quei pazzi mi sarei integrato perfettamente. Il posto che si chiama “passeggi” è dove si svolge “l’ora d’aria”. Il mio primo passeggio è stato nel carcere di Caltanissetta; entrato, dovetti salutare tutti stringendo la mano; mi spiegarono che era obbligatorio salutare tutte le mattine con la stretta di mano e risalutare quando rientravi in cella. Mi sembravano dei pazzi: quarantacinque eravamo, e i passeggi erano piccoli, camminavano avanti e indietro come dei robot disposti in due file di tre persone separate da quattro passi. Ogni fila faceva quattro passi in avanti, si girava e faceva altri quattro passi. Mi venne in mente una volta che ero andato a trovare un mio amico nella sua abitazione del centro storico di Caltanissetta; era un vecchio edificio, uno di quegli antichi bassi, con un acquario grande per quella casa. Mi disse di cercare qualcosa che attirasse la mia attenzione e, visto che non trovavo nulla di strano, mi fece notare che ogni specie di pesce si riunisce in un pezzo di acquario. […] Trovandomi in quel passeggio mi tornò subito l’immagine dell’acquario: i Gelesi, il gruppo più numeroso, erano vicini alla porta del bagno e discutevano tra loro; i detenuti di Sommatino e Montedoro camminavano insieme e discutevano di pecore; i Nisseni erano vicino al muretto e di solito giocavano a scacchi; i Palermitani, che si erano presentati dopo la sentenza definitiva del maxi processo a Caltanissetta, passeggiavano lentamente; altri gruppi chiacchieravano.
E poi c’era Manuele, che passava da un gruppo all’altro sempre parlando, come faceva anche Lillo di San Cataldo. Dopo un po’ toccherà anche a me saltare da un gruppo a un altro: noi eravamo i pesci pulitori, cioè quelli che si sobbarcavano la risoluzione di possibili problemi e tra i gruppi e per altri motivi. Infatti, per esempio, si decise che si giocava a calcio due volte alla settimana e alla seconda ora dei passeggi, in modo che i più anziani risalissero in cella dopo un’ora di passeggio senza rischiare di prendere qualche pallonata. Vi erano altre mille cose da discutere tra noi tre, che alla fine decidevamo. Si era ricreato quell’acquario che in casa di Amedeo io non avevo capito.
2.2 – Supercarcere di Ascoli Piceno
Arrivai nel super carcere di Marino del Tronto, una frazione di Ascoli Piceno, dopo che mi era stato applicato il regime del 41 bis nel carcere di Trani, dove ero stato per circa un anno. Dopo la perquisizione di fronte alla matricola, arrivato al secondo piano mi perquisiscono di nuovo. Capisco che quello è il particolare trattamento del 41 bis, che tanti amici mi avevano spiegato. La cosa strana è che gli agenti mi danno del tu; mi dicono: Mettiti qui, fai così» e reagisco per la prima volta: «Senti, non sono tuo fratello, a scuola sono stato sempre da solo e non ho mai avuto un compagno di banco. Non mi dia del tu, per favore». L’agente mi risponde che il mondo è piccolo e che si ci rincontra, ma pur guardandolo attentamente non lo riconosco.
A un tratto sento una voce da molto lontano: “To’, apposto! Domani ti spiego!”. Entro in una stanza dove c’è un napoletano di città che mi accoglie come un padrone di casa e mi mette subito a mio agio. […] L’indomani racconterò quello che era successo il pomeriggio precedente a Nunzio, che mi spiega: “To’, non dimenticarti che sei stato imputato per l’incendio delle otto macchine della squadretta in servizio a Caltanissetta; quelli erano in missione e può darsi che qualcuno adesso lavori qui”. Gli rispondo che è vero come è vero che sono stato prosciolto dall’accusa all’udienza preliminare. […]
Resterò ad Ascoli per ben otto anni, durante i quali succederà di tutto. Per esempio, il mio primo colloquio con il vetro divisorio, che mi preoccupava per la reazione di mia moglie, che invece è sempre stata una donna forte. Il secondo colloquio, con le mie figlie, invece riserverà una profonda angoscia: Valentina piangeva perché non accettava di non abbracciarmi, Serena non disse una parola per tutta l’ora.
Ogni giorno c’era qualcuno che protestava per qualcosa e tutti lo seguivano anche se non capivamo per cosa si stesse protestando: era un modo per farsi sentire. Insomma mi trovavo in un ambiente difficile sia per la condizione carceraria in sé sia per le situazioni psicologiche; non potevi cucinare e il vitto dell’Amministrazione era scarso. C’era sempre una questione da risolvere. Nonostante che io sia uno che sa accontentarsi, il 41 bis ti trasforma in un ribelle. La mattina, ai passeggi, avevamo deciso che chiunque di noi avessero chiamato per cambiare cella avrebbe dovuto opporre un rifiuto: ogni due o tre giorni ti facevano cambiare stanza senza un reale motivo, ma solo per non lasciarti tranquillo. Un giorno, rientrati dall’ora d’aria, il brigadiere mi comunica che devo cambiare cella e io rispondo di no. Dopo la distribuzione del vitto, vedo venire verso di me sei agenti con l’elmetto lo scudo e il manganello. Non sapevo se ridere o cosa fare, sento il rumore dei blindi che si chiudono in tutte le celle. I sei si fermano fuori dalla mia cella e mi dicono che devo trasferirmi e quando ribadisco che non cambierò cella, entrano con la forza, iniziano a picchiarmi con i manganelli, mi prendono di peso e mi spostano nella saletta di fronte, completamente vuota. Per la mia cella scelgono un anziano calabrese. Quello risponde subito di sì: forse si è impressionato o forse ha fatto una scelta razionale. Sta di fatto che, entrato nella mia cella, metterà tutte le cose che mi appartengono in un sacco nero dell’immondizia. Dopo di allora, tutti gli toglieremo il saluto. Sinceramente io non volevo che alcuni detenuti facessero pesare ad altri quello che erano costretti a fare con la forza. Ho pensato che alla fine anch’io avevo cambiato cella, certo con la forza, ma in fondo ero in un’altra cella.
Quello che ti muoveva in queste occasioni era puro istinto di sopravvivenza; non c’era una motivazione razionale anche perché, molte volte succedeva che, mentre eri ai passeggi, prendessero le tue cose e le portassero in un’altra cella – e che cosa potevi fare? Molti detenuti distruggevano le celle, altri lasciavano i rubinetti aperti e allagavano i corridoi, ma c’erano sempre altri detenuti che pulivano e quando accadeva che i lavoranti della sezione dei 41 bis si rifiutassero, chiudevano tutti i blindi e arrivavano i detenuti comuni a pulire. Niente è razionale, ma l’unico modo per sopravvivere è il modo necessario per non annullare l’identità di ognuno di noi. Sì, appartenevo e vivevo in un’istituzione che, se era già “totale” all’inizio della mia detenzione, lo diventava sempre di più lungo il mio percorso di vita dentro il carcere.
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