Domani, giovedì 9 giugno (ore 16,30), nell’ambito del Bassai Dai Festival, sarà presentato alla Mensa Occupata (via Mezzocannone, 14) il volume di Piero Cipriano, La società dei devianti (Elèuthera edizioni). Pubblichiamo a seguire una recensione del libro.
Lo psichiatra riluttante, Piero Cipriano, torna a raccontare di depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta, nel suo terzo libro La società dei devianti (Elèuthera 2016). Lo fa senza perdere il tratto acuto di una scrittura leggera e di un pensiero critico che ha caratterizzato il suo esordio e completa, così, una trilogia che fornisce, anche ai non esperti, un quadro di insieme dei servizi di salute mentale e delle pratiche psichiatriche.
Nel suo primo libro, La fabbrica della cura mentale (Elèuthera 2015), Cipriano descriveva il nuovo manicomio moderno, partendo dalla sua decennale esperienza nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura. Nel secondo, Il manicomio chimico (Elèuthera 2015), raccontava come l’abuso o l’uso improprio della farmacologia, degli anti-psicotici, costringa il sofferente psichico in una manicomio composto da muri invisibili.
In questo ultimo libro, si ripresentano entrambi i temi che hanno attraversato i suoi lavori precedenti, inseriti in una riflessione più di respiro su “cos’è nuovo manicomio illimitato, che è definitorio, diagnostico, categoriale, che rispecchia questo bisogno diffuso, ubiquitario e condiviso di trovare sempre un’etichetta a ognuno”.
Continua a definirsi uno psichiatra riluttante, Piero Cipriano, “uno non accondiscende ai dogmi della psichiatria e alle sue pratiche, quasi sempre repressive”, uno psichiatra critico, radicale che ama definirsi, con le parole di Colin Ward, un disperato creativo anarchico. Uno psichiatra che, con la scrittura, ha dato il via a una nuova forma della sua “disubbidienza”: disobbedire alla regola del segreto “iniziando a scrivere, a raccontare ciò che accadeva, ciò che facevo. A farmi delatore, traditore, a svelare ciò che non va detto: che noi psichiatri leghiamo le persone ai letti. Questo terribile segreto che ci portiamo dentro io l’ho scritto, e l’ho pubblicato. Assumendomi la responsabilità di ciò che ho scritto”.
Così, a partire da spunti quotidiani, dalle esperienze in reparto, dagli incontri con la complessa umanità che passa per i servizi di salute mentale, con i pazienti e le loro paure, da medici abituati al cinismo, dai dubbi e le paure che compongono un lavoro difficile, Cipriano articola una riflessione puntuale su come, progressivamente, nei servizi, spesso in aperta contraddizione con un discorso pubblico contrario allo stigma e al restraint, gli psichiatri si trasformino in custodi, chiamati a rivestire una funzione di controllo invece che di cura.
Quello che rende molto interessanti le sue riflessioni è che sono intrecciate, a maglie strette, con la pratica quotidiana. Non c’è un richiamo astratto a un quadro teorico di riferimento, alla tradizione di Franco Basaglia e Sergio Piro, ma un interrogarsi nel mentre del proprio agire. La capacità di mettere alla prova i principi nei quali si crede giorno per giorno, nel lavoro di équipe con medici e infermieri spesso di tutt’altro avviso, nelle relazioni con i pazienti.
Così, accanto alla riflessione sulle politiche che spingono a un uso di farmaci sempre più “invadenti” e a effetto prolungato, vi è il racconto di episodi significativi, come l’intervento con Cesare, paziente irrequieto, agitato, in crisi, poco disposto ad adeguarsi alle regole del SPDC e per il quale però è possibile evitare la contenzione, anche contro l’opinione dei colleghi. Accanto al tema della contenzione fisica, come detto, quella della contenzione farmacologica, il farmaco come legamento chimico. Cipriano non appare contrario all’uso dei farmaci in sé, ma all’uso dei farmaci a sostituzione di qualunque relazione terapeutica e al solo fine di governare docilmente le crisi del paziente.
Un testo interessante, godibile, ricco di spunti, che costituisce un’eccezione nel silenzioso mondo degli psichiatri e degli operatori della salute mentale che, salvo rari casi, non superano mai i confini del discorso tecnico e specialistico e che raramente accettano il confronto con altri campi del sapere. Come lui stesso scrive, “il medico mentale quando varca la prima volta la soglia del manicomio (in senso lato, vale lo stesso discorso, oggi, per il Spdc), con la prima iniezione che ordina, con la prima volta che fa legare un malato al letto, inizia la sua carriera morale di medico mentale, e in quel momento smette di essere non solo un medico decente, ma proprio un umano decente. Per consentire alla persona con disturbo psichico di intraprendere una carriera al contrario, deistituzionalizzarsi, il medico mentale deve percorrere lui per primo una carriera al contrario, demanicomializzarsi”.
In fondo, Cipriano sembra mostrare, con caparbietà e ironia, una strada possibile e praticabile, senza eroismi ma con la giusta dose di disperazione creativa, che consente al medico di “demanicomializzarsi”, che riconosce il paziente come persona e che non lo chiama con il nome della sua malattia. Una strada che non può essere percorsa individualmente, ma richiede ad ognuno una lotta condivisa e consapevole, contro ogni stigma e a tutela e a difesa dei diritti e delle dignità umana. (dario stefano dell’aquila)
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