Fine ottobre 2020. Come succede spesso, Idrissa non è in casa. Ad aprire la porta è Mussa, che subito mi invita nella sua stanza. Siamo al Neruda, in una delle tante stanze del piano terra. Una volta questi erano i laboratori della vecchia scuola di conceria, ma dopo più di cinque anni di occupazione niente potrebbe ricordarne la funzione originale. Gli abitanti hanno personalizzato le stanze, le hanno rese autosufficienti, le hanno fatte proprie. E nel corso degli anni molti hanno ceduto il posto a nuovi venuti, nuovi sfrattati, nuovi compagni. Mussa è qui da poco ma non ha perso tempo: appena entro mi mostra orgogliosamente il bagno auto-costruito con tanto di vasca.
Idrissa è in officina. Da quando è stato liberato dal Cpr di Ponte Galeria, il 22 ottobre del 2020, è passata poco più di una settimana, ma il lavoro non può aspettare. Idrissa ha una sua fama: era il miglior carrellista dell’Ex-Moi. E una fama del genere va mantenuta. Mussa lo chiama, pare non dovremo aspettare troppo. Intanto parliamo. Parliamo della storia che vogliamo scrivere, dell’intervista; del Cpr, di corso Brunelleschi e di Ponte Galeria, dove il nostro amico ha passato gli ultimi tre mesi. In quel periodo insieme a Mussa e agli altri avevamo cercato di tirarlo fuori da lì, contattando avvocati, associazioni, collettivi. Per quante storie avessi sentito, per quante volte avessi manifestato di fronte a quelle mura e per quanta frustrazione avessi già provato, il senso di impotenza di quei tre mesi non aveva precedenti. E niente di ciò che avevamo fatto era servito: Idrissa era stato liberato solo grazie all’accorciamento dei tempi massimi della detenzione amministrativa deciso dalla ministra Lamorgese. Ma che ci avessimo provato, quello contava di più.
Idrissa arriva dopo pochi minuti. Vogliamo raccontare la sua storia. Idrissa comincia dal giorno in cui lo hanno portato nel Cpr: «Quelli che lavorano alla Croce Rossa sono venuti da me, la mattina e mi hanno detto: “Prepara la tua roba, devi cambiare stanza”. Mi hanno detto che c’era il tampone da fare. Fatto il tampone, ho aspettato fino al pomeriggio e allora sono venuti i carabinieri: tre macchine. Allora ho detto all’autista che non avevo sigarette e mi ha dato dieci sigarette. Mi ha anche detto: “Mi dispiace”. “Lo so – ho detto – siete solo ordini. Non è colpa vostra”. Allora mi ha lasciato dentro. Quando sono arrivato mi hanno tolto il cellulare, mi hanno tolto la carta d’identità. L’accendino. Mi hanno fatto firmare un foglio. Non so cosa c’era scritto. L’ho firmato e ho detto: “Andiamo, portatemi dentro”».
Questa è solo l’ultima parte della storia. Dal nostro dialogo emergono il viaggio in mare di Idrissa, l’accoglienza in Italia, l’occupazione alle palazzine dell’Ex-Moi, il progetto di sgombero e la resistenza per cui era finito in carcere. Ricordiamo l’arrivo della polizia alle palazzine dell’Ex-Moi, lo svuotamento forzato e poi i campi della Croce Rossa dove gli abitanti erano stati portati: nel mezzo del nulla, tra i capannoni industriali e i campi oltre Settimo Torinese. Là, un giorno di fine luglio, due volanti lo hanno prelevato, senza spiegargli nulla, per portarlo al Cpr. «Mi hanno lasciato al campo della Croce Rossa di Settimo dicendomi di aspettare, che dovevano vedere se mi trovavano un posto», ricorda Idrissa. «Ho passato lì un anno. Io conoscevo bene quel posto. Me lo ero già fatto nel 2011. Avevo aspettato lì, per la domanda d’asilo. Il campo era diviso in due: noi dell’Ex Moi, circa cinquanta, e quelli della domanda d’asilo, neanche una decina; avevamo spazi separati. Nei container abitavamo in due per cella. C’era l’elettricità e il riscaldamento e un ventilatore, diciamo così. E poi c’era una baracca della Croce Rossa. Era molto lontano dalla città. Lontanissimo, senza niente intorno. La ferrovia, campi, tante fabbriche. In bicicletta o in autobus ci mettevamo più di un’ora per arrivare in città, mezz’ora soltanto fino all’Auchan. Non facevamo attività come tirocini o la scuola d’italiano. Niente. Niente di niente».
Ed è venuto il tempo della pandemia. «Con il lockdown siamo rimasti tutti bloccati dentro la Croce Rossa. Non siamo potuti uscire per tutto il periodo, neanche per fare la spesa. Il primo periodo c’era anche la polizia fuori, ma poi non si sono più fatti vedere. Noi non potevamo uscire a fare la spesa e loro non ci davano niente. Per mesi. Neanche lo shampoo. Vado a chiedere lo shampoo e mi chiedono di quale progetto sono. Che adesso non c’è il capo del progetto dell’Ex-Moi, dicono. Che non c’è più il progetto dell’Ex-Moi, dicono. È andata avanti così fino alla fine del lockdown. Solo quando è finito siamo stati di nuovo liberi di andare in giro, sì. E ho iniziato, ti giuro, ad andare in giro tutta la notte con il carrello. A fare il bidone, per fare il Balon, dietro al cimitero. Anche il giorno che mi hanno portato al Cpr…».
Mussa conosce bene la storia di Idrissa. Erano insieme quando furono arrestati e accusati di essersi opposti, con l’aggravante della violenza, al progetto che prevedeva lo svuotamento delle palazzine dell’Ex-Moi e il ricollocamento degli abitanti. In quattro passarono un anno al carcere delle Vallette, in custodia cautelare. E così nel racconto di Idrissa alla voce dell’uno si sovrappone la voce dell’altro: «Stavamo insieme all’Ex-Moi di Torino dal 2013 al 2018 – dice Mussa –. Sono venuti per fare lo “sgombero dolce”, dicendo che volevano accompagnare le persone per avere un lavoro e una casa. Noi non ci abbiamo mai creduto. Abbiamo fatto dei presidi e delle proteste e lo hanno arrestato. Lo hanno fatto per fare paura a tutti quanti, per dire a tutti: “Se non vi mettete d’accordo con noi finirete come i vostri compagni e i vostri amici”».
Un tempo lunghissimo per una misura cautelare, lungo abbastanza per portare avanti lo sgombero senza averli tra i piedi. Idrissa e Mussa si erano davvero opposti allo sgombero dell’Ex-Moi, ma la loro reale aggravante era il ruolo che avevano nelle assemblee con gli altri occupanti, negli incontri con i solidali, nei cortei e nei presidi, ai tavoli con i governanti.
Nei mesi estivi del 2020, a circa un anno dallo sgombero, mi è capitato spesso di incontrare gli abitanti che stavano all’Ex-Moi. Mussa aveva piantato, nel bel mezzo del lockdown, una tenda di fronte al Palazzo di Città insieme ad altre decine di senza tetto, tra cui molti abitanti cacciati dall’Ex-Moi, rifugiati e richiedenti asilo. Erano stati mandati via dai ricoveri allestiti in piazza D’Armi per “l’emergenza freddo”. Arrivata la primavera, pandemia o meno, queste persone dovevano cercarsi un altro posto. Altri li ho incontrati a Saluzzo a inizio estate, pochi giorni dopo la manifestazione di Black Lives Matter del 6 giugno. Erano nel mezzo del “parco della posta”, dove passavano le giornate e le notti, dormendo sui cartoni, quando non erano in giro per le campagne a pedalare alla ricerca di un ingaggio nelle raccolte della frutta.
Anche oggi al Neruda parliamo a lungo del destino degli altri abitanti dell’Ex-Moi. «L’altro giorno sono passato in corso Emilia – dice Idrissa –. Lì conosco tante persone. Ci siamo salutati. “I migliori auguri”, abbiamo detto. Solo loro sanno dove dormono adesso». Idrissa finisce nel campo della Croce Rossa perché così ha deciso il progetto di sgombero. «Nel campo della Croce Rossa di Settimo, verso la fine, erano rimaste solo tre persone dell’Ex-Moi. Chi ha gestito il progetto li ha mandati in una casa da soli, avevano l’affitto pagato per tre mesi e poi hanno dovuto cavarsela. Gli altri sono stati messi in tante case, ma ormai li hanno buttati tutti fuori. Molti, molti sono andati in Francia. Da settimane e mesi non hanno trovato lavoro, niente; chi ha avuto fortuna ha trovato lavoro nei magazzini o come muratore. Ma io non ho ancora mai visto uno di loro con un contratto. Tutti piangono».
Il destino delle quattro palazzine è invece più chiaro. Leggo un comunicato siglato, tra gli altri, dalla Città di Torino e dalla Compagnia di San Paolo: “Torino, 3 luglio 2020. Oggi la vendita dei sette immobili del MOI, l’ex Villaggio Olimpico di Borgo Filadelfia, dal Fondo Città di Torino, gestito da Prelios Sgr, al Fondo Abitare Sostenibile Piemonte (FASP), gestito da InvestiRE SGR e sostenuto dalla FIA (Gruppo Cassa Depositi e Prestiti), dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, dalla Fondazione CRT – attraverso il Fondo Social & Human Purpose, Sezione A, gestito da REAM SGR – e da altre fondazioni bancarie piemontesi. Dopo la definitiva liberazione da una lunga occupazione, conclusasi la scorsa estate a seguito di un innovativo processo di mobilità, accompagnamento e inclusione degli abitanti degli edifici, verso percorsi di autonomia abitativa e lavorativa, coordinato dal Comune di Torino, in collaborazione con la prefettura, la Regione Piemonte, la Fondazione Compagnia di San Paolo e la Diocesi, il quartiere dell’ex Villaggio Olimpico sarà completamente ristrutturato e diventerà un complesso di residenze sociali, con oltre quattrocento posti letto dedicati ad alloggi temporanei a tariffe agevolate per studenti, giovani lavoratori, city user. A regime sarà gestito da Camplus, il primo provider italiano di co-living e housing per studenti universitari, con diecimila posti letto, di cui duemila saranno a Torino dal prossimo anno accademico. La riqualificazione urbanistica e sociale degli edifici di via Giordano Bruno supera l’emergenza Covid-19 e punta a un nuovo obiettivo di abitazioni moderne e accessibili, ricche di servizi alla persona, per Torino, città universitaria a forte vocazione culturale che continua a vivere una fase di grande progettualità grazie a diverse iniziative”.
Un altro presente, novembre 2021. Due mesi fa, il 19 settembre 2021, sulla bacheca di Facebook vedo un post di Chiara Appendino. Sono gli ultimi giorni della campagna elettorale e dal profilo della sindaca si rivendica la riuscita dei progetti di rigenerazione urbana avviati dalla giunta. In questo post, con il solito tono entusiasta e impegnato, viene annunciata la promozione del “Progetto MOI – Un’opportunità di Inclusione” a “modello nazionale da applicare in altri casi analoghi presenti o che si presenteranno in Italia” tramite la sigla di un nuovo accordo. È il coronamento di una narrazione che procede dal 2017, secondo la quale lo “sgombero dolce” dell’Ex-Moi si distinguerebbe per il coinvolgimento degli abitanti delle palazzine, per la capacità strategica messa in atto nel rifunzionalizzare gli spazi e infine per l’approccio integrato, capace di attivare istituzioni e attori presenti sul territorio.
Questo nuovo accordo, chiamato significativamente “Come il Moi – Oltre il Moi”, è sottoscritto il 30 giugno da Comune, Città Metropolitana, Regione, prefettura, Diocesi, Compagnia di San Paolo. Viene presentato presso la Sala degli Specchi della Prefettura, in presenza del capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’interno. Oltre al documento, per l’occasione vengono diffusi anche slides, video e altri materiali che permettono di comprendere come la riqualificazione urbana e sociale delle palazzine sia stata portata avanti e come il nuovo protocollo intende dare continuità alla progettualità avviata. Nei dati diffusi si riferisce che, dei circa milletrecento abitanti dell’Ex-Moi, circa ottocento persone sono state inserite nei progetti e ospitate in varie strutture di accoglienza, e che di queste, dopo due anni, circa trecento persone sono state accompagnate in autonomia lavorativa e circa centosettanta in autonomia abitativa. Infine, di circa cento persone in condizioni legali precarie o irregolari, circa un quarto è stato “accompagnato” alla regolarizzazione. Tuttavia non ci sono informazioni sulle condizioni di coloro che non sono riusciti a raggiungere l’autonomia lavorativa o abitativa, né la regolarità giuridica. Infine il documento sottolinea che questi risultati sono stati raggiunti grazie alla collaborazione tra le istituzioni e oltre trenta attori del terzo settore.
È passato un anno da quella sera insieme ad Idrissa e Mussa. Dopo quella lunga chiacchierata Mussa mi ha accompagnato al portone e lì siamo rimasti a parlare, seduti sugli scalini. Aspettavamo Idrissa che era andato in cortile per recuperare la bici e il carrello. Come ogni sera andava a fare il bidone. Quando è arrivato, abbiamo parlato ancora di quello che avrebbe fatto, ora che era di nuovo libero, ma senza più nessuna speranza di regolarizzare la propria condizione. È passato un anno. Il processo a loro carico si è concluso. I risultati del Progetto Moi sono stati pubblicati e il nuovo progetto “Come il Moi – Oltre il Moi” ne ha raccolto la staffetta. Il Movimento Cinque Stelle non è più al governo, ma i progetti di inclusione procedono, procede la riqualificazione urbana e rimane attivo il Cpr di corso Brunelleschi. La città è tornata in mano ai nuovi, vecchi fautori della rigenerazione, costruttori dei centri di identificazione ed espulsione, gli inventori della formula “sgombero dolce” per eliminare i baraccanti lungo la Stura. Anche Idrissa e Mussa vanno avanti. L’uno continua a fare il bidone, a rivendere in via Carcano, a mettere in strada nuovi carrelli. Mussa lavora, fa un tirocinio. Gli hanno promesso di assumerlo. Come avevano fatto al tirocinio prima. Aspetta, come sempre, il rinnovo del permesso. (erasmo sossich)
Leave a Reply