Certe parti dell’edificio erano delimitate da un nastro che impediva l’accesso. Le aule erano inagibili, i laboratori impraticabili a causa del soffitto crollato, la palestra inutilizzabile. Un cartello nel corridoio al piano terra portava la scritta “Zona interdetta”. Erano all’ordine del giorno i litigi, perché gli alunni pretendevano di andare nel bagno pulito dei docenti invece di utilizzare quelli per loro. La voce adulta di turno replicava che se i bagni erano ridotti in tale stato, la colpa era dei ragazzi. Inoltre si litigava per la fame. Uscivano da scuola alle due, altri alle tre. Giornate intere passate in classe, materie che si avvicendavano tra un suono e l’altro della campanella, loro che sempre più irrequieti restavano seduti tra i banchi, i professori che alzavano barriere di contenimento. La buona volontà di qualche docente non bastava. Di quello sfacelo, loro si rendevano conto più di ogni altro. Di conseguenza sfasciavano i bagni, era logico. Poi, a mezzogiorno, iniziava il viavai frenetico di chi ordinava i panini alla salumeria fuori la scuola.
Per un lungo periodo dell’anno gli alunni furono costretti a entrare a giorni alterni per via dell’inagibilità dell’edificio. Una mattina eravamo in classe quando ci dissero che avrebbero dovuto eseguire la simulazione delle prove di evacuazione. La campanella avrebbe suonato tre volte e tutti, in fila ordinata, sarebbero dovuti uscire nel cortile. Una volta fuori il bidello mi guardò e disse: “Carte a posto, imbrogli a mappate. Papà lo diceva sempre”. Iniziò a ripeterlo ogni volta che m’incontrava. “Carte a posto, imbrogli a mappate. Non vi scordate”.
Non l’ho scordato. L’anno scorso di questi tempi vivevo a San Giovanni. C’ero andato con l’intenzione di associare il lavoro dentro le scuole all’attività al di fuori, per strada. Nessun volo pindarico stava alla base di quella decisione. Piuttosto alcune circostanze, e qualche idea appresa da chi condivideva con me esperienze più o meno simili in altri luoghi della città. Come l’idea di collocarsi ai margini senza sentirsi marginali e quella di considerare la strada come teatro principale delle nostre azioni. Anche il piacere di vivere in un quartiere a due passi dal mare c’entrava; di restare stesi sulla spiaggia a ridosso del depuratore, con i disoccupati, al sole del lunedì; d’incontrare i ragazzi delle scuole a zonzo per il lungomare, tra le barche tirate a secco e i pescatori. Consideravo poi l’ipotesi di conoscere più a fondo quei ragazzi, fuori dalla classe, all’esterno di quelle scuole inagibili e opprimenti. Conoscendoli, pensavo, avrei sicuramente imparato a conoscere il posto dove abitavano, sia quello definito dai rioni e dal mare della zona orientale, sia l’altro, l’intervallo di tempo dominato dal caos delicato e impetuoso dell’adolescenza. La volontà d’incidere si riduceva tutt’al più a uno scambio reciproco, non a una premessa. Il margine di manovra nelle scuole era troppo limitato, e quando la pratica rivelava qualche progresso c’era sempre chi lo smontava in un modo o nell’altro. Se avessi voluto approfondire quei legami nati in classe giorno dopo giorno, a quel punto era opportuno abitare gli stessi luoghi, le stesse strade. Anzi la stessa strada.
Buoni propositi. Dentro le scuole quei ragazzi si sentivano come dei derelitti e come tali erano trattati, mentre fuori almeno erano liberi, o più semplicemente s’illudevano di esserlo. Avremmo potuto condividere le stesse contraddizioni e gli stessi dubbi, il tempo ci avrebbe parlato chiaro. Con il senno di poi, mi domando quali siano state le ragioni che mi hanno indotto a lasciar perdere quel cammino e ad andare via da San Giovanni dopo un paio di mesi. Mancanza di coraggio ed energia, probabile. Remissività, di sicuro. Perseverare era diventato sfiancante. Più il lavoro nelle scuole andava avanti, più mi sentivo oppresso dalle figure adulte che incontravo all’interno di quelle mura. Iniziavo a non sopportare più certe situazioni, non riuscivo a tollerare alcuni docenti. Il loro approccio richiedeva la legittimazione da parte mia, nel ruolo dell’educatore, necessitava del mio appoggio, della mia complicità. Se loro erano schizofrenici, dovevo esserlo anche io. Se loro sbraitavano, non dovevo remare contro, non dovevo prendere le difese degli alunni, non potevo stare in silenzio. Dovevo scegliere da che parte stare, altrimenti creavo un corto circuito. Come se il problema fosse stato del tutto privo di sfumature, riducibile a un mero rispetto delle regole: togliersi il cappello, togliere da mezzo i cellulari, stare seduti composti, non dire parolacce, studiare le materie a memoria per evitare la bocciatura, sputare la gomma, parlare in italiano, portare un cartellino di riconoscimento addosso con sopra scritto il nome e il cognome, e chi non lo portava in presidenza tutta la giornata, una punizione che loro chiamavano “gli arresti domiciliari”.
Quando me ne resi conto non fu piacevole. Ho sentito dire che la prima regola dell’educatore è quella di sopravvivere. E sopravvivere in due scuole della periferia orientale, una visibilmente alla deriva, l’altra formalmente in ordine, significava preservare l’istinto di conservazione accettando un’impostazione asfittica, affiancando l’alienazione dei docenti, la loro frustrazione, il loro linguaggio estraneo alla maggior parte degli alunni irriducibili. La remissività, come scrisse un autore russo, è uno dei tratti più stupefacenti della natura umana. Per sopravvivere l’istinto scende a patti con la coscienza.
Meglio lasciar perdere, allora, per sottrarsi alla propria acquiescenza. Meglio concedersi una pausa. Andare via, piuttosto – almeno per il momento –, come unico atto di disobbedienza possibile, e tornare a salutare i ragazzi di tanto in tanto, quando il tempo lo permette. Esserci, ma in un altro modo. Magari scrivere di loro – sebbene il lavoro a scuola sin dal principio fosse stato quello di scrivere insieme a loro –, restituendogli le cose che mi hanno insegnato sul tempo al quale appartengono. Nell’attesa, provare, in virtù del passato e di questo presente, a sforzarsi d’immaginare quale futuro possibile li aspetti, quali destini e quali illusioni avranno; con una certezza al riguardo: l’abbandono a se stessi da parte di chi ha il mandato istituzionale di prendersi cura di loro. Pensare a come andrà a finire, a costo di delineare percorsi troppo semplificati per colpa dell’urgenza, rifiutando le contraddizioni che sottendono le vite di ognuno. Cancellare anche tutti i contatti, dai quali sarebbe stato possibile ottenere un’immagine virtuale distorta e falsificata delle loro vite che avanzano, in balìa delle subdole seduzioni che circondano loro e gli spazi vuoti in cui vivono, senza niente da perdere. Un oratorio, una biblioteca con vista sul mare, un centro polifunzionale, un buon teatro, qualche progetto educativo rivendicato come modello vincente da qualche consigliere comunale per le prossime elezioni: nel primo alcuni ci saranno cresciuti, degli altri i ragazzi a stento conosceranno l’esistenza.
Il loro tempo è scandito da altri imperativi, in un quartiere operaio senza più fabbriche né operai, attorniato da palazzi fatiscenti e piazze di spaccio che si contendono troppi clan in troppo poco spazio. «I soldi, dobbiamo fare i soldi». A Mauro non interessava altro che guadagnare e spendere, spendere e guadagnare. Erano un’ossessione i soldi, e le femmine ovviamente. Ne parlava mentre vi attardavate tra i corridoi di quella scuola inagibile, e tu là a fare l’inutile parte del francescano che prova a disturbarlo scherzosamente parlando di ricchezza interiore, mentale e non materiale. «Ma quale ricchezza interiore!», ti rispondeva. Diceva che le femmine vengono dopo i soldi perché senza i soldi le femmine non ti considerano, sono un oggetto da acquistare e nient’altro, come i vestiti firmati comprati con tanti soldi, come le macchine e le moto pagate un poco alla volta. Secondo Fabio era meglio niente insieme che essere ricchi soli, ma Fabio era un’eccezione, l’avrà sentita in casa da qualche familiare, questa bella frase.
Alcuni di quei ragazzi sono sulla soglia dei diciotto anni ormai, avranno lasciato la scuola dopo l’ennesima bocciatura, saranno stati respinti dal consiglio di classe perché recidivi. In gergo li chiamano dispersi, oppure evasori scolastici. In casa, quelli che hanno i genitori inizieranno ad avvertire il peso della responsabilità, capiranno che i tempi sono maturi perché i genitori gli diranno con insistenza che è giunto il momento di darsi da fare. E se mi fermo a pensarci un attimo, posso sentire i discorsi che prendono forma tra loro nelle serate trascorse tra le palazzine dei rioni in cui vivono, fuori ai bar o seduti in venti intorno a una panchina, a non fare niente e a fare tutto, a bere e a mangiare, a sfottere, a esplodere di gioia pura che sale a galla dopo aver fumato tutto il pezzo d’erba da venti apparato con gli spiccioli di ognuno. Se la rideranno, e questo è l’antidoto che aiuta a non pensare al futuro, che giorno dopo giorno si manifesta come un’illusione coatta, immutabile. Si picchieranno per ammazzare il tempo e per sfogare, perché la violenza è linguaggio condiviso, è un modo di scherzare, non solo monopolio di un potere statale legittimato da tutti tranne che da loro, non solo una raffica di colpi sparati sul corso per far capire a quelli come loro chi comanda veramente nel quartiere. Diffideranno della divisa, dell’autorità, delle istituzioni, diffideranno di chiunque. Proveranno ancora più disprezzo una volta saputo dalla televisione di un coetaneo ucciso da un carabiniere dall’altra parte della città.
Troveranno conferma in quell’odio reiterato verso di loro, e per paura ricambieranno con la stessa moneta. Qualcuno indosserà quella divisa, o almeno ci proverà, almeno quello è un posto fisso a cui aggrapparsi. Anche questa è una reazione alla remissività, una forma d’insubordinazione alla propria istintiva acquiescenza? Nell’attesa di trovare una risposta qualsiasi, guarderanno le partite, perderanno le bollette e seguiranno il gruppo ultrà Sud 96 fuori e dentro lo stadio. Poco altro. Per loro non c’è niente, neanche le parole che forse cercano ma non trovano per comunicare la rabbia e quel vuoto che li circonda – nel frattempo, altri continueranno a sfasciare i bagni di una scuola sempre più inagibile e opprimente. Non avranno neanche i soldi per le sigarette ma qualcosa esce sempre da un lavoretto temporaneo che si rivela eterno, chi sfruttato a nero in una pizzeria, chi in qualche officina di meccanico, chi in giro per i mercati rionali a vendere scarpe, chi elemosinando un posto, chi a sperperare soldi con le scommesse, torturato dalla speranza di fare soldi a palate. Sempre meglio di niente: imparare un mestiere, far girare un po’ l’economia chiedendo i soldi con gli interessi. A gruppi andranno in giro per Portici e San Giorgio, a seconda dei luoghi in cui si sposta la movida. Capiranno cos’è la solitudine, fingeranno di non soffrire. Forse partiranno. Qualcuno comincerà a scippare gli Iphone ai figli di papà nelle zone limitrofe, seguirà l’istinto di conservazione che dalla miseria conduce alla ricchezza rischiando senza mezzi termini. Nessuno scongiurerà quelle scelte, nessuno glielo impedirà, tranne la coercizione e l’aumento del numero di reati sul casellario giudiziario. Quello che non gli è stato dato se lo prenderanno senza chiedere il permesso, con prepotenza. E mentre io mi prendo la briga di tracciare un destino scontato, loro abiteranno quella strada semideserta e si tatueranno nomi indelebili, per poi osservarli allo specchio insieme al riflesso di se stessi, provando colpa e vergogna di essere ciò che sono. (andrea bottalico)
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