C0mincia oggi a Milano, fino al 27 novembre, la decima edizione di La Terra Trema – Fiera feroce. Vini, cibi e cultura materiale, presso lo Spazio pubblico autogestito Leoncavallo. Riproponiamo a seguire un articolo pubblicato qualche giorno fa su L’almanacco de La Terra Trema (autunno 2016), rivista trimestrale autofinanziata e pubblicata a partire dal novembre 2015.
Agosto 2016. Sicilia. I vignaioli e i contadini siciliani che con le loro storie attraversano La Terra Trema sono moltissimi, non potrebbe essere diversamente per un progetto che si chiama così. È agosto e siamo a Catania, alle pendici dell’Etna
Le implicazioni romantiche ci sommergono. ’A Muntagna, il vulcano attivo più alto d’Europa, dimora di miti, di popoli antichi e di dèi. Siculi, Egizi, Greci, Romani hanno calcato queste terre. Qui l’eco del lavoro di Adranòs/Efesto. Qui si compone l’immagine rarefatta di Bacco/Dionisio, tra Catania e Messina, che soffocato da polvere e caldo si lasciò andare al pianto disperato sui sassi. Gli dèi ne ebbero pietà e fecero germogliare tra le pietre un tralcio di vite e poi subito abbondanti grappoli di uva; lui ne spremette qualche acino ricavandone un vino poderoso che bevuto gli diede forza e vigore facendo passare ogni sconforto. Qui Oresteo, “uomo delle montagne”, interrò il ceppo legnoso partorito dalla sua cagna e dal quale, col favore di Sirio, nacque la prima vite sull’Etna. E Polifemo, il ciclope, cadde accecato da Ulisse dopo essersi ubriacato con vino dolce e forte. La storia di questo lembo di terra si muove pari passo con la storia della domesticazione della vite e della cultura del vino, tra mito e storia si intreccia e si aggrappa come viticcio di vite.
Migliaia di anni di cultura vitivinicola stratificati su terrazzamenti di pietra lavica, perfetti per trattenere il buono di terre vocate alla coltivazione della vite. Terreni formati dallo sgretolamento di diversi tipi di lava e materiali eruttivi, stratificazioni di ceneri, lapilli, pomice. Non può essere diversamente: produzioni vitivinicole uniche. Oggi da Catania il nostro viaggio ci porta verso il versante nord dell’Etna, verso Désirée e suo padre, Nunzio Puglisi, dell’Azienda Enò-Trio. Con Désirée ci siamo sentiti più volte in programmazione di questo incontro. Nelle telefonate c’è già uno scarto diverso dall’immagine di lei tra gli stand dell’ultima edizione de La Terra Trema, sicura e forbita, a suo agio completo nella metropoli. Ora la troviamo sempre in campagna, sempre in vigna, al lavoro, a studiare, controllare, a cercare quiete, sommersa da suoni e paesaggi che le sono ancora più consoni.
Partiamo. Come pianeti intorno al sole ruoteremo intorno all’Etna, sarà una circumnavigazione. Lasciandoci alle spalle la città attraversiamo il suo hinterland di mostri di cemento e centri commerciali dai nomi facili, che imbarazzano la storia millenaria di questa terra: Etnapolis o Città del Tempo Ritrovato, con la sua facciata lunghissima che taglia l’orizzonte per chilometri e accompagna e aggredisce lo sguardo sul vulcano alle sue spalle.
A Bronte c’è da riappacificarsi col paesaggio, rigoglioso e poco addomesticato. Riprendiamo fiato. Uliveti, boschi e agrumeti che poi lasciano il passo ai pistacchieti, floride coltivazioni per una pianta bellissima, antica e viaggiatrice, che nei frutti cela storie importanti, da conoscere e approfondire. Sapevamo che il territorio di Bronte fosse, nei numeri e nella qualità, il più importante produttore d’Italia di pistacchio, quello verde della Dop, ma scopriamo anche che le aziende della lavorazione, trasformazione e commercializzazione del pistacchio di questo territorio sono le più grandi importatrici di pistacchio d’Italia, forse del mondo. Oggi il pistacchio, quasi tutto, anche a Bronte arriva da Iran e Turchia.
L’appuntamento con Dèsirée è al cimitero di Maletto. Lei si scusa per la scelta ma «lì non ci sbagliamo». Non si può sbagliare, prima o poi ci incontreremo tutti al campo santo, è una filastrocca che ritorna. Ma tra imbarazzo e pudore atavico nel parlare di morte e chiedere il meno possibile, costruiamo il malinteso. Sbagliamo cimitero e stazioniamo minuti e minuti di fronte al bell’ingresso del cimitero sbagliato, quello di Bronte. Inconsapevoli del malinteso, nell’attesa che comincia a farsi lunga, ritorniamo su una storia accaduta anni e anni fa, negli stessi giorni caldi di agosto. Bronte, 10 agosto del 1860. Sui libri la storia è quella dell’unità d’Italia, nelle strade di quella cittadina e nei dintorni la memoria va alle storie di brigantaggio fuori dalla retorica garibaldina.
Il brigantaggio è storia stratificata e contorta di Mezzogiorno, è storia di un movimento soprattutto contadino diffuso, capillare che coinvolse in una guerra vera e propria metà dell’Italia e si concluse con settemila morti in combattimento, 2 mila fucilati e 20 mila prigionieri condannati ai lavori forzati. A queste tristi cifre – prova reale di un crimine grande compiuto dallo stato italiano contro il popolo meridionale – si aggiunse la costruzione dello stereotipo infamante proiettato contro le popolazioni del sud e che trovò avvallo nelle tesi deliranti e pseudoscientifiche del Lombroso che parlò “dell’innata delinquenza dei popoli del sud”; oppure nelle dichiarazioni di ministri del Regno come Luigi Carlo Farini: «Altro che Italia! Questa è Africa! I beduini a riscontro di questi cafoni son fior di virtù civile» e del generale e deputato Nino Bixio: «La Sicilia non è compatibile con il resto della nostra nazione. La Sicilia è Africa». È l’estate del 1860: la popolazione brontese è sfinita e incazzata, i proclami garibaldini, ben sbandierati, non hanno esito sulle fasce più povere e suonano come l’ennesima beffa. Sarà mandato a risolvere proprio Nino Bixio quell’insurrezione popolare a Bronte, nel corso della quale caddero sedici persone tra padroni ducali, borbonici e cappelli; fu lui il responsabile del processo in cui centocinquanta persone furono sommariamente giudicate e cinque condannate alla pena di morte per fucilazione in pubblica piazza.
Nella piazzetta che fu luogo dell’eccidio, una delle due lapidi ammonisce la memoria: “La Città di Bronte, ad imperituro ricordo nel 150° anniversario del sacrificio dei cinque concittadini brontesi fucilati. Vittime di una giustizia sommaria, applicata in guerra in nome di una presunta ragione di stato”. L’altra stende sul marmo i nomi delle sedici persone uccise nella rivolta, in perenne ricordo. Chiarito l’equivoco e trovato il giusto cimitero, seguiamo Désirée per un pezzo: «La strada si fa difficile», ci dice. Lasciamo la nostra auto per proseguire con lei.
Désirée e Nunzio, suo padre, li avevamo conosciuti a La Terra Trema, colpiti positivamente ci eravamo promessi di andare a trovarli. Dèsirée è giovane, ha venticinque anni: dimostra in poco tempo tutta la consapevolezza della propria scelta di vignaiola, sviscera in poche efficaci parole una grande conoscenza del territorio, guida sicura sulle strade che man mano si fanno strette e selvagge. Ci fermiamo a quota mille e cento metri, contrada Nave, comune di Bronte, sullo sfondo l’Etna sempre ben visibile e intorno i nebrodi, boschi di castagno e una moltitudine di felci. Il terreno è inaspettatamente soffice, erba verde, ginestra, fragoline e finocchietto selvatici, ci imbattiamo subito nella grande stranezza dell’azienda Enò-Trio: un ettaro di Gewürztraminer impiantato lì a fine anni Ottanta.
Come fu? Perché impiantare lì, sull’Etna, un vitigno che a noi (e non solo a noi) rimanda all’Alsazia e all’Alto Adige, al mitico vignaiolo Kurt Rottensteiner di Brunnenhof Mazzon, Roncola d’Oro 2013? La risposta è anche semplice all’apparenza: perché siamo in montagna e qui gli inverni sono rigidi con anche un metro di neve che resta fino a marzo. I vitigni aromatici necessitano di sbalzi termici tra giorno e notte (giornate calde per la maturazione e notti fresche per mantenere i profumi). Non tutti lo sanno, per esempio, ma una delle città dove si raggiungono le più alte temperature in Italia in estate è Bolzano. Nunzio, anni addietro, si occupava della selezione massale tra Etna e siracusano con uno storico vivaista francese, Pierre-Marie Guillaume. Insieme ebbero l’idea di provare a impiantare gewürztraminer sul vulcano. Non contenti decisero di “estremizzare” ancor di più la sperimentazione realizzando un impianto a controspalliera, doppio cordone speronato, una densità d’impianto di circa ottomila e trecento ceppi, una resa tra gli ottocento grammi-un chilo per ceppo, una distanza tra filare e filare di quaranta centimetri, piante molto basse. Insomma un lavoro molto duro, totalmente volto nella direzione dell’alta qualità, a costo di fatiche immani in ogni fase di lavorazione, tutte esclusivamente manuali, tutte da svolgere accovacciati o in ginocchio. (laura alemagna e paolo bellati / continua a leggere…)
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