«Sì, ma qual è la nostra proposta? La galera?». Su questa domanda, posta durante un’assemblea da un attivista che condivideva con gli altri la sua sincera difficoltà a trovare una soluzione al problema, si disintegrò, un paio d’anni fa, un eterogeneo gruppo che portava avanti una ricerca sui processi di trasformazione del centro storico di Napoli.
Alcuni attivisti e attiviste che facevano parte di quel gruppo avevano deciso che il laboratorio non avrebbe dovuto più svolgersi all’interno dello spazio occupato che ne ospitava le riunioni, perché quello spazio veniva attraversato da un uomo coinvolto nella tragica vicenda riguardante la morte di una donna che lo aveva denunciato per violenze, e che poi era deceduta per un’emorragia cerebrale due anni dopo (l’uomo si era inoltre reso protagonista di minacce ad amiche e compagne della donna, che lo accusavano di essere responsabile di quella morte, e oggi è oggetto di un procedimento giudiziario). Quelle attiviste chiedevano che il collettivo dello spazio occupato allontanasse l’uomo e non gli permettesse più di entravi, cosa che è in effetti avvenuta poco tempo dopo.
Questo e un altro paio di episodi simili che mi sono capitati nella mia esperienza di militante mi sono tornati in mente leggendo il libro di Giusi Palomba La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere (Minimum fax, 2023), che riflette su un tema fondamentale per tutti i soggetti, individuali e collettivi, che nei percorsi di attivismo mettono in discussione la legittimità dei sistemi punitivi come unica via possibile per la gestione delle criticità della convivenza sociale. La scrittrice e militante femminista apre una riflessione su quali siano gli strumenti e le possibilità che gruppi militanti, e in generale “comunità”, possono mettere in campo per gestire una violenza di genere con pratiche che non siano meramente (e quasi sempre inutilmente) repressive o punitive, e che vanno dall’espulsione da uno spazio sociale fino a una scritta stigmatizzante su un muro o alla denuncia alle autorità giudiziarie del soggetto violento.
Per farlo l’autrice racconta un’esperienza nella quale si è trovata coinvolta durante i suoi anni a Barcellona. Il suo amico Bernat (nome fittizio), carismatico militante di movimenti sociali catalani, attivista e uomo stimato come empatico, sensibile e per di più vicino alle istanze femministe e LGBTQ, viene accusato da una donna di molestia sessuale. La stessa donna, però, sceglie di non denunciare il fatto alle autorità e chiede a un gruppo di persone che lavora sui processi della cosiddetta “giustizia trasformativa” di iniziare un percorso collettivo perché Bernat possa acquisire consapevolezza dell’accaduto e fare i conti con le proprie responsabilità di uomo e di militante.
Palomba spiega l’iter del processo trasformativo (la formazione dei gruppi di supporto alla donna ma anche all’uomo, il coinvolgimento in confronti individuali e collettivi delle persone che fanno parte della comunità, le necessità avvertite dalla donna e le sue richieste rispetto alla presenza-assenza dell’uomo) e restituisce la complessità della questione attraverso una narrazione che non nasconde le delusioni, i dubbi, le inquietudini che l’hanno accompagnata in quanto militante, femminista e migliore amica di Bernat.
Ne viene fuori un libro importante. In primo luogo, perché rende conto della possibilità di gestire una violenza in maniera non giudicante e/o punitiva, e apre orizzonti rispetto alla non ineluttabilità dell’iter “denuncia-indagine-processo-
Centrale è lo spazio che nel testo assume la dimensione soggettiva del delitto. Nel momento in cui il percorso comunitario prende piede, infatti, la ricerca della verità e l’ossessione dell’oggettività smettono di essere gli unici piani possibili di analisi, ma vengono affiancati da una dimensione altra che si concentra sui risvolti “in entrata” e “in uscita” che quella violenza porta con sé. Quali sono le cause individuali e sociali che hanno contribuito a che quel delitto si concretizzasse? Quali le conseguenze su “vittima” e “carnefice”? Sono queste le parole più adatte a descrivere la condizione di chi commette e chi subisce violenza? È così decisivo passare al setaccio i dettagli di questa violenza, ricercare la misura e la quantità della colpa, o è più importante dare spazio alle “dimensioni” percepite dalla persona che subisce l’attacco fisico, alle conseguenze che quella violenza porta con sé, ai traumi, alle necessità che la parte lesa andrà a esprimere anche a distanza di tempo?
Allo stato attuale un processo del genere non può probabilmente prescindere da un certo livello di consapevolezza politica della “vittima” (definita il o la “sopravvivente”) e della comunità che decide di farsene carico. Nonostante questi elementi siano presenti nel caso specifico, però, dal libro emerge tutta la complessità del percorso, che costringe a una riflessione non solo chi ha commesso e subito la violenza, ma l’intera comunità che vi partecipa (compresa l’autrice del testo, per la quale la chiusura del cerchio sembra essere arrivata solo con la scrittura del libro, all’interno del quale – oltre alla necessità di approfondire e diffondere un metodo – trovano spazio, di volta in volta, la rabbia, la delusione, l’entusiasmo della scoperta, le vulnerabilità, la mancanza, la nostalgia). Allo stesso tempo, tuttavia, si lascia intuire come questo livello di consapevolezza politica non sia un miraggio o un’utopia, ma un obiettivo raggiungibile attraverso azioni concrete ed esemplari capaci di mostrare come le alternative esistono e sono perseguibili quotidianamente.
Palomba mostra, per esempio, come la maggior parte delle problematiche che finiscono per causare esitazioni e rallentamenti nel processo trasformativo siano frutto delle strutture mentali e sociali che ci siamo costruiti nel tempo, che impediscono in primo luogo – e se ci pensiamo è un paradigma innaturale – a chi subisce una violenza, e più in generale un delitto, di fare delle scelte proprie. Le strutture di potere impongono la punizione come unica soluzione possibile, e la limitazione della libertà come solo strumento per l’annullamento della devianza. Una prospettiva che rende i sistemi penali più vicini all’idea di vendetta che di giustizia e che consolida un sistema all’interno del quale il “carnefice”, de-socializzato e quindi de-umanizzato all’interno di quattro mura, si trasforma in “vittima”, aumentando la possibilità che possa alla fine della pena commettere nuovi delitti, causare nuove vittime e così via.
La rilevanza principale di questo testo, probabilmente, non sta nell’efficacia con cui viene esposto il caso studio, né nella descrizione dell’approccio trasformativo. Sta piuttosto nello spingere il lettore verso la consapevolezza che possano esistere soluzioni altre, possibili, rispetto al sistema penale e punitivo, nel caso specifico per un’azione violenta, ma che in altri tipi di delitti possono concretizzarsi in pratiche altrettanto efficaci. Un “dare forma e senso alle alternative” che ci ricorda che il contenimento, la punizione, la detenzione, il carcere, il manicomio sono tutte invenzioni dell’uomo, frutto di scelte politiche e sociali precise, e che come tali possono, e oggi devono, essere superate. (riccardo rosa)
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