Il governo di Torino ordina lo spostamento del mercato degli straccivendoli dal centro alla periferia, ma i venditori si oppongono. Intorno si eseguono sfratti e sgomberi, nascono residenze per turisti, una scuola di scrittura, botteghe di lusso. Frammenti di voci, ricordi e appunti raccontano i disegni della riqualificazione e le ragioni della resistenza.
Dal 12 aprile 2021 è in libreria La Venere degli stracci. Miseria, rivolta e potere nella città post-industriale (Monitor edizioni, 160 pagine, 15 euro), un libro di Francesco Migliaccio. Proponiamo a seguire alcuni estratti del libro montati ad hoc per il sito di Napoli Monitor.
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Claudia ha steso una tovaglia variopinta su un tavolo in plastica, sopra vedo santini, immagini ortodosse, piccole medaglie con lo stemma dell’ordine francescano di Gerusalemme. Passa accanto una donna, Claudia le fa segno e urla: «Ehi amica, come stai? Ascolta, vieni qui, guarda questi oggetti. C’è argento? Tu sei zingara e lo sai. Non c’è argento, eh. No? Grazie amica». Claudia è seduta sull’amaca stesa tra un palo e una cancellata, davanti a lei il selciato è coperto da una stuoia cosparsa di oggetti. «Venti euro per il servizio di piatti, signora… No signora, venti». A volte, quando qualcuno s’allontana, Claudia inveisce a denti stretti e mi sorride. Tra la mercanzia vedo L’orrenda tana, racconto di fantascienza in edizione Urania, una teiera con fiori rosa e azzurri dipinti, telefoni portatili di cui uno infranto, bambole (una con il volto da pagliaccio, una nera, una senza testa), una brocca per il latte, una macchina fotografica con la sua custodia in pelle, un sottovaso in plastica, un cofanetto blu per caramelle, tre dischi di Mina, un candelabro in rame, presine da cucina, un passeggino rosa per bambole, un dizionario di francese, un orsacchiotto dalle gambe larghe. In una scatola speciale Claudia conserva lenzuola di lino, fuori sporge una raccolta d’immagini con le giocate di Maradona. Emerge Topolino che saluta, su un piatto è raffigurato un borgo marinaro nordico con case dai tetti spioventi. Come posso osservare i frammenti senza affidarmi alle categorie? Vedo un mosaico dove dominano gli accostamenti di colore e le figure quasi svaniscono. Anche il racconto dello sgombero del Balon, il mercato degli straccivendoli, imita la disgregazione sulla stuoia, la natura eterogenea di pezzi, brani e rottami. Disorientato, lo sguardo vaga libero.
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«Cosa vuoi sapere di me?». Comincia dall’inizio, Claudia. Cosa ti ricordi del principio? «Dove sono nata? In Brasile? Sono nata in Brasile. Sono nata in Madureira, sarebbe il quartiere della zona nord di Rio de Janeiro. È in periferia, è il centro di commerci principale dopo il centro di Rio. Poi sono cresciuta in un quartiere di fianco a Madureira, che si chiama Turiaçu. Adesso ti dico di mio padre, di mia madre. Mia mamma si chiama Marieta. Si chiamava Marieta. E mio papà si chiama Antonio. Mia mamma discendeva dagli indios e mio papà è bianco con gli occhi verdi. Sai che mio padre è più giovane di mia madre? Diciannove anni in meno di mia mamma. Non so dirti tanto perché sai, ero piccola, no? Allora, io sono cresciuta con tre fratelli, tre fratellastri, che sarebbero figli di mia mamma con il suo primo compagno, che era un militare della Marina. Mi sa che ha mollato mia mamma, non so cosa è successo. Poi conosce mio papà e loro vivono insieme e hanno avuto due figli: mio fratello e io che sono la più piccola, che in portoghese si dice caçula. Siamo cresciuti in un monolocale, perché mia mamma ha sofferto un incidente sul lavoro e aveva le dita così, storte, capito? Dalla ditta è stata indennizzata e ha comprato questo alloggio. Sono cresciuta così: tutti insieme nella stessa casa, otto persone. Un mio fratello lavorava nel telegrafo, lui quand’era piccolo puliva le scarpe, vendeva gelati e mi portava sempre con sé, faceva banchetti durante le feste. Sai che in Brasile ci sono tanti giorni festivi, lui faceva le bancarelle e vendeva fogos pirotecnicos, per fare soldi in più per la famiglia, capito? La casa mia era strana perché avevo una sorella che era conosciuta nel quartiere come pazza. Ci descrivevano la “casa dei pazzi”».
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Mi figuro il quartiere dove vivo, Porta Palazzo, come lo spazio d’un presepe. In basso il fiume scorre nervoso sotto il ponte Carpanini in acciaio e il ponte Mosca, struttura ottocentesca ad arco in pietra. Dalla riva si sale verso sud in lieve pendenza fino a piazza della Repubblica punteggiata da tendoni che riparano i banchi in legno del mercato ortofrutticolo. Qui i venditori dispongono pomodori e melanzane sulle plance, i contadini che giungono dalla campagna vendono patate, cavoli e cipolle sotto la tettoia. Di fronte sorge un ostello di lusso con il bar dagli interni raffinati, accanto una residenza finanziata dalla fondazione bancaria della città. Un ambulante vende spugne, un altro mazzi di menta. Verso il centro della piazza ci sono i banchi del pesce e un mercato coperto offre cibo pretenzioso. Sferraglia un tram, un’auto della polizia fa la ronda e un tassista senza licenza s’appoggia alla sua auto. Un vecchio borgo, il Borgo Dora, si distende tra la grande piazza del mercato e il fiume. Nella via principale s’affacciano negozi di antiquariato, rigattieri, bar con aperitivi sui tavolini, un dehors dove gli abitanti marocchini fumano la shisha e bevono tè. Risale la strada un venditore di frutta secca con il carretto. Alla fine della via vedo il palazzo dove abitava Monsieur Abdel, al piano terra c’è ancora una trattoria. Accanto al fiume s’apre una piccola piazza che ospita la Holden, una scuola per aspiranti scrittori, e il Sermig, un ricco centro di accoglienza per poveri. Alle spalle della scuola ecco una stretta strada acciottolata, il canale Molassi: sale fino all’antico cimitero di San Pietro in Vincoli. Un piazzale in cemento separa il cimitero dal fiume. Lungo il greto uomini si riuniscono per fumare e ascoltare musica sotto le telecamere appese ai lampioni, ma un agente immobiliare risale verso il borgo ben vestito.
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Dal Grand dictionnaire universel du xixᵉ siècle di Larousse, edito nel 1869, alla voce “Chiffonnier”: “Seguitelo; lo vedrete fermarsi dinanzi a tutti i mucchi di immondizia lasciati sulla pubblica via in attesa che gli spazzini vengano a toglierli. Lo straccivendolo gira e rigira questi detriti e li esplora da tutti i lati: con l’aiuto del suo spunzone infilza tutti gli oggetti che possono avere una qualche utilità e li getta nel suo canestro. Non si accontenta di raccogliere soltanto gli stracci, come sembra indicare il nome che gli si è dato: egli raccoglie anche i vecchi fogli, i tappi, gli ossi, gli scarti di cartone, i chiodi, i vetri rotti, i gatti e i cani morti abbandonati per strada in violazione delle ordinanze, i capelli; in una parola, tutto quello che può essere venduto. Sono ancora gli straccivendoli che, sebbene sia vietato, privano i muri degli annunci pubblicitari affissi ogni giorno. […] I vecchi fogli e gli stracci sono utilizzati per la fabbricazione di carta e cartone; gli ossi sono poi trasformati in carbone animale; il vetro è fuso e rinnovato; i chiodi finiscono tra la ferraglia; i cani e i gatti sono scuoiati e la loro pelle è utilizzata; i capelli […] riappaiono – che vergogna! – su teste eleganti, sotto forma di trecce ondeggianti e curvi chignon. Per l’industria nulla di ciò che si raccoglie negli angoli dei paracarri è perduto; i vili frammenti tratti dal fango sono come crisalidi alle quali la scienza darà forme eleganti, ali diafane. […] Le vecchie ciabatte sono ampiamente utilizzate dai ciabattini: loro ne fanno quella che si chiama l’anima delle scarpe […]. Persino le scatole delle sardine vuote e sfondate, lasciate ad abili mani, si trasformano in giochi per bambini: piccole trombe, soldatini lavorati, utensili e arredamenti lillipuziani”.
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Secondo la delibera i venditori del sabato governati dall’associazione Vivibalon avrebbero dovuto esporre le merci a nord, in via Carcano, a partire dal 19 gennaio 2019. I mercanti hanno reagito con un presidio spontaneo sotto il comune sabato 5 gennaio e con una nuova protesta corale il venerdì successivo. Quel giorno Claudia bloccava il traffico assieme ai manifestanti e stringeva alcuni fogli di quaderno su cui aveva scritto un discorso da rivolgere a Chiara Appendino. La straccivendola ha declamato il testo mentre registravo la sua voce, poi mi ha affidato i fogli degli appunti. Ho trascritto così le parole di Claudia mai pronunciate dinanzi alle istituzioni: “Buongiorno a tutti, As-salāmʿalaykum! Il Balon è un punto di riferimento di tutti i mercanti che passano a Torino. Il Balon è un mercato che è sviluppo di aggregazione e risorsa di materiali di recupero. Vivere di recupero in un pianeta di sette miliardi di abitanti è strategia urbana. Ogni persona qui presente è in gran parte responsabile a salvare il pianeta dal consumismo urbano. Noi siamo qui a salvare il Balon, perché questo è composto dalla istoria di ogni singola persona itinerante, che ha da raccontare perché il Balon è esistenza viva. L’ottanta per cento di queste persone che sono associate all’associazione Vivibalon non votano, non fanno parte della politica sporca di questo paese. Il vostro partito ha specificato il Fanculo Day come espressione politica e adesso per lei è ora di andare a fottere. Lei dice che chi non ha voglia di lavorare deve dimettersi: è ora che lei si dimetta. Perché lei non può permettersi di togliere la sopravvivenza a centinaia famiglie che sopravvivono di materiale di recupero. Claudia Muniz”.
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Chiamavamo “notti dei fuochi” i presidi del venerdì illuminati dai falò. Gli straccivendoli prendevano i loro posti di sera per anticipare le forze dell’ordine. La prima notte stabilirono due presidi: uno basso presso l’ingresso del cortile del Maglio, uno alto in piazza San Pietro in Vincoli. Al presidio basso qualcuno aveva costruito un riparo di teloni sostenuti da pali e transenne, appoggiato su barriere di metallo. Un telone era legato in alto con nastri di plastica strappati. C’erano materassi sparsi tra dissuasori di cemento, sotto i piedi alcuni sampietrini del selciato si muovevano lassi. Uomini del mercato, marocchini, si scaldavano attorno al fuoco. Idris aveva disposto le merguez sulla griglia. Accanto, sul tavolo, c’erano baguette, biscotti, bottiglie di birra e vino. «Vuoi il tè?», era dolce e denso. L’odore di marijuana scaldava le narici gelate e un mercante italiano ripeteva: «Siamo sempre stati qui e non ce ne andiamo». Claudia raccontava: «Siamo qui dalle tre di pomeriggio». E Idris: «Quando siamo in mezzo al mare, noi lo sappiamo, pensiamo ad andare avanti, non a tornare. Noi ora siamo qui e andiamo avanti». S’aggiravano anche alcuni abitanti del quartiere, giunsero ragazzi solidali con una pentola di lenticchie e gruppi organizzati dalle occupazioni portavano legna da bruciare e sostegno. La voce di Ghali fluiva dalle casse, un gruppo di studenti suonava la chitarra. Al presidio alto, in piazza San Pietro in Vincoli, c’erano rom e marocchini nel silenzio della sera. Una donna rom aveva acceso un piccolo fuoco in una vecchia padella e lo nutriva con l’alcol denaturato: le fiamme erano alte e lei vi gettò dentro la bottiglia di plastica ancora piena.
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Alle quattro di mattina di sabato 19 gennaio 2019 i mercanti hanno steso le stuoie: il Balon s’è tenuto come sempre, e nonostante l’ordine della giunta comunale. Il giorno dopo Claudia ha scritto una storia degli ultimi eventi, dalla delibera fino alla notte dei fuochi: “Il 27 dicembre il comune decide di spostare il mercato gestito dall’associazione Vivibalon, un mercato che rappresenta più di quattrocento operatori, espositori di materiali di recupero. Pochi giorni dopo, alla fine del mercato, parte un corteo verso il comune dove il transito viene bloccato e rimane in tilt […]. Nell’assemblea del 7 gennaio viene categoricamente respinta la chiusura del Balon di canale Molassi e di piazza San Pietro in Vincoli. Il 12 gennaio, durante l’ultimo mercato gestito in Borgo Dora dall’associazione Vivibalon, tanti cittadini mostrano la loro solidarietà, ma spesso la loro è una solidarietà di borghesi che nasce su Facebook e non considera davvero chi è coinvolto nel mercato. Il rischio è che vi sia una strategia dove la povertà è usata per interesse politico. Ma i venditori – italiani e stranieri – alzano i toni e dichiarano che saranno disposti a presidi quotidiani pur di rimanere nel quartiere del Balon. Contro lo spostamento del mercato sono disposti a fare le barricate! Il quartiere anarchico di Porta Palazzo si mobilita contro la speculazione dei borghesi e i loro calcoli matematici, contro la loro buona morale che in realtà è sfruttamento dei poveri. […] Sono giornate di freddo e tensione, ma piano piano si prende coscienza della responsabilità e si rifiuta la sottomissione psicologica che si aveva in precedenza. […]. Si annuncia una guerriglia urbana e si soffia sul fuoco per radio. Nella notte di venerdì nasce un mondo anarchico dove il mercato si autogestisce”.
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Conosco due tecniche di ritrovamento degli oggetti perduti al Balon. Si può gironzolare tra banchi e stuoie alla ricerca di un bene peculiare: lo sguardo scandaglia gli ammassi di merci escludendo quanto non è pertinente. Un giorno ho passato ore a cercare piccole cornici per un’amica e ne ho comprata una d’ottone per pochi euro da un occhialuto venditore napoletano. Lei restaura le cornici e v’inserisce ricami, cartoncini colorati, foto ritrovate o immagini diafane di santi. Oppure, ed è la seconda tecnica, il cercatore può passeggiare nel mercato senza desideri definiti, attento a trovare l’oggetto inatteso che stupisce. Ai suoi occhi appaiono un tino di vino, una menorah, una tartaruga ninja posseduta nell’infanzia, un piccolo melograno in ceramica, una copia di Infinite Jest. Anche il lettore può interpretare questo mosaico di testi in due modi, entrambi legittimi. Percorrendo il sentiero tra le pagine, può trovare quel che cerca: i dati che corroborano una teoria. La storia degli straccivendoli racconta la riqualificazione urbana e il suo lato violento, un’apparente democrazia che esilia ai margini gli indesiderati, la parzialità di ogni legalità, il volto oscuro del nostro razzismo. L’interprete, ancora, può aggirarsi qui da camminatore smarrito, attento a un incontro improvviso: vagabondo tra legami lassi e materiali giustapposti, egli può rinvenire l’oggetto, l’immagine che non s’aspetta. Forse ogni brano è come una fotografia; esso inquadra un soggetto, o un tema, ma nel campo dell’immagine s’insinua un dettaglio inconsapevole, un’iscrizione inconscia: l’assassino nel parco che nel presente dello scatto era passato inosservato.
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Sabato 26 gennaio gli straccivendoli violano la delibera per la seconda volta e il mercato resta nel quartiere. La domenica Claudia m’invia una nuova riflessione scritta. “Il comune di Torino viene smascherato dai mercanti del Balon. Il mercato autogestito smentisce il mito che si debba essere sottomessi a una legge di autorità, e obbedire. La libertà della vita lacera la delibera. La delibera è stata di fatto annullata da ogni singolo mercante che ha preso il posto della sua attività, in un contesto vissuto. Qui gli operatori ed espositori di materiali di recupero fanno la storia del mercato del Balon, dimostrando che la volontà dell’amministrazione è carta straccia, un bluff. Una sindaca irresponsabile ha assunto un comportamento arrogante contro le vite altrui. Ha provato a mettere in soggezione l’attività di quattrocento operatori e più. Operatori che appartengono alla tradizione di un quartiere storico, orgogliosi della loro identità etnica e così forti da sottovalutare lo stress fisico e psicologico. Qui difendono la loro sopravvivenza attraverso il materiale di recupero. […]. Hanno tenuto aperto il mercato per ventiquattro ore, dimostrando alla società di non subire, di non essere vittime e di non cedere al conformismo. Il Balon resiste grazie agli operatori che con la loro grinta trasformano il presidio in un atto di rebeldia, di sfida a questo potere. La comunità si autogestisce e non si lascia destabilizzare da un atto di terrore psicologico. […] Una barricata al giorno è meglio che un giorno di elezione; e la ricerca dello zoccolo di Cenerentola è la ricerca di ogni operatore». Che gli ultimi, gli straccioni marginali e senza diritti, possano invalidare l’autorità delle istituzioni, questo mi sembra lo scandalo della stagione dei fuochi.
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Claudia, raccontavi che quando eri bambina vi chiamavano la “casa dei pazzi” perché tua sorella era matta. «Questa mia sorella era bella, bella, bella. Sai cos’è una donna bella? Non c’è definizione, una cosa spettacolare. Mia sorella si chiamava Selma e non aveva una pelle nera, né mora, ma era rossa. Spettacolare: quel colore moro rosso, tipo bordeaux. Lei era così, aveva delle tettone e io non avevo un cazzo. Era forte, capito? Io ho i capelli castano scuro, ma lei aveva i capelli neri. Dicono che era il periodo della luna: sei mesi era brava, tranquilla, normale; e per sei mesi aveva questa crisi. Apriva la bocca così e non la chiudeva, la bocca rimaneva aperta, capito? È brutto quando vuoi bene a una persona e la vedi soffrire e non sai perché. Era una crisi epilettica, no? Non so spiegare. Ogni tanto veniva l’ambulanza e la prendeva perché lei cadeva. La bocca rimaneva aperta e allora doveva prendere il Diazepam. E poi mi ricordo che ogni tanto, durante la crisi, lei prendeva un coltello e andava vicino alla televisione – quella è una scena che mi ricordo – e diceva che voleva ammazzare Antônio Fagundes, un attore brasiliano. “Lo ammazzo, lo ammazzo!”, davanti alla televisione. E non avevo paura di lei, io. Era sempre un pericolo, ma con noi no. Fuori era discriminata e non solo lei, ma tutti noi, no? Poi mi ricordo anche una volta che veniva l’ambulanza, la prendeva e la portava in ospedale e lei rimaneva lì. Io ero piccola, lei era più grande di me, praticamente io avevo sette, dieci anni, lei già aveva venticinque, trenta, capito? E il distacco dell’età cambia tante cose. Ero una bambina, però lei mi chiamava sempre “Claudinha”. Diceva: “Claudinha, io ti voglio bene. Claudinha, io ti amo”. Sempre!».
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