Dove prima era l’appartamento di Omar adesso si erge una barriera di cemento e mattoni. La porta, murata da qualche ora, sembra essere stata sempre così, quasi a dimostrazione che avere una casa possa rappresentare, per alcuni, solo una breve parentesi dettata dal caso. Omar – il suo nome, come quello degli altri abitanti, è inventato – illumina con lo smartphone il muro di fronte a noi ancora per qualche secondo, poi, lo sguardo vacuo, ci invita a proseguire lungo il corridoio buio e umido: schiere di porte sigillate dal cemento si susseguono, inaccessibili, come in un tetro mausoleo. Siamo nel quartiere Barriera di Milano, in un caseggiato sito in corso Vigevano che appartiene a Giorgio Molino, noto palazzinaro e speculatore; al di fuori di queste mura si respira l’aria tiepida di una giornata di inizio maggio. Qui, dall’inizio della primavera, quasi ogni giorno avvengono sfratti sommari. Degli appartamenti, un tempo poco più di settanta, meno della metà sono ancora accessibili.
Le proprietà di Molino sono spesso teatro di incidenti dovuti alle condizioni di sovraffollamento, abbandono e usura. Nonostante le diverse inchieste giudiziarie che nei decenni lo hanno coinvolto, di cui una recente per frode fiscale, e la facilità con cui i suoi inquilini vengono sfrattati, Molino e la macchina amministrativo-burocratica intorno a lui continuano a essere un punto di riferimento per tutti gli stranieri che faticano a trovare un’abitazione nel mercato privato e in assenza di politiche abitative pubbliche.
Stretto tra un ristorante cinese e un “club privato”, lo stabile di corso Vigevano appare come una rozza stratificazione di edifici costruiti in epoche diverse: la facciata principale, dalle mura solide e i soffitti alti, forse una ex fabbrica, sembra accorpata a un secondo edificio di più recente costruzione, dove ha sede una chiesa pentecostale a cui è possibile accedere da una via laterale. Qui le file di finestre dai vetri rotti che costeggiano le mura espongono alla luce del sole soffitti di cartongesso lacerati e ammuffiti da cui pendono neri cavi.
Eletto nel corso del tempo a esempio di degrado e criminalità, a febbraio di quest’anno un incendio ha riportato lo stabile alla ribalta della stampa locale. Dai paragoni con l’immancabile Bronx, agli ormai ricorrenti “blitz” polizieschi, fino all’appellativo di “quartier generale” della mafia nigeriana, le narrazioni su corso Vigevano sono una perfetta sintesi di tutte le angosce razziste e securitarie che assillano le amministrazioni di destra e sinistra, la cui più recente manifestazione è la presenza massiccia di presidi dell’esercito nel quartiere di Barriera di Milano. Questa distorsione dell’immaginario collettivo s’è palesata nel 2019, quando un nubifragio ha creato gravi infiltrazioni nello stabile e i suoi abitanti sono stati accusati da giornali come la Repubblica di non “voler andare via”, nonostante l’evidente inadeguatezza della soluzione abitativa loro proposta: soggiornare in una palestra allestita in via temporanea dalla Protezione civile.
La mia prima visita risale a inizio marzo, pochi giorni dopo l’incendio che segna l’inizio dell’incalzare degli sfratti. In quei giorni l’andirivieni di polizia e giornalisti fa sì che la presenza ambigua della macchina fotografica di un amico desideroso di documentare mi permetta di accedere nel caseggiato. Dopo qualche minuto di attesa, il tempo di sostituire un pezzo della bicicletta elettrica, ci accoglie Rashid, un ragazzo pakistano che lavora come rider e vive qui da due anni. Rashid è preoccupato perché dopo l’incendio la polizia è tornata più volte ad avvertire gli abitanti che con l’arrivo della bella stagione lo stabile verrà sgomberato. Ci muoviamo in un dedalo di corridoi e scale di cui non riesco a ricostruire ordine e struttura; all’interno è stata staccata l’elettricità e in alcune aree, prive di sbocchi verso l’esterno, il buio è totale e bisogna orientarsi con una torcia. Noto che diversi appartamenti lungo il nostro cammino sono stati murati. Nell’oscurità si possono scorgere le sagome di persone che, avvolte dalle coperte, giacciono immobili su materassi stesi per terra.
Basta però sostare qualche minuto lungo i corridoi o sulle scalinate per abbandonare ogni suggestione spettrale: gli abitanti, come in una cittadella, si spostano freneticamente da un appartamento all’altro, in un ciclo continuo di visite di cortesia e incontri fortuiti. Conosco così Omar, un ragazzo sui trent’anni elegante nei semplici abiti sportivi. Viene dal Senegal, e dopo aver vissuto a Parigi è approdato in Italia. Mi dice che per vivere recupera scarpe in vari mercati delle pulci e le rivende al dettaglio ad amici e conoscenti tramite i social. Ci invita a entrare in una stanza senza finestra dalle pareti colorate. Da qualche tempo Omar ospita nella sua stanza una famiglia marocchina sfrattata dal piano superiore: sento un respiro pesante venire da dietro le tende che dividono la stanza in due spazi separati.
Fuori vedo un uomo bussare a una porta da cui, pochi secondi dopo, sbuca una mano che gli porge con gesto professionale una sigaretta. L’uomo si chiama Abdulai e presto diventa la nostra guida. Ci spiega che chi dorme sui materassi viveva nelle case adesso murate. Anche lui è stato sfrattato e da qualche mese si arrangia come può. Insieme andiamo sul terrazzo del palazzo di fianco dove ci fa una dimostrazione pratica di come le persone rientrino negli appartamenti murati passando dalle finestre. Abdulai abita in corso Vigevano da cinque anni: finito il suo soggiorno in un campo della Croce Rossa a Settimo, va a vivere nell’occupazione dell’Ex-Moi fino allo sgombero delle ultime palazzine. Le quattro palazzine dell’ex Villaggio Olimpico, occupate nel 2013 in seguito all’esaurimento dei progetti di accoglienza legati alla cosiddetta Emergenza Nord Africa, sono state oggetto di un lungo sgombero “dolce” voluto dalla giunta Appendino e da Compagnia di San Paolo, conclusosi nel 2019. Allora Abdulai ha rifiutato di aderire ai vani progetti di inclusione proposti agli occupanti e dopo aver trovato lavoro presso una lavanderia in zona si è stabilito qui. Secondo Abdulai sono in molti, come lui, a essere approdati in corso Vigevano dall’Ex-Moi.
Non è la prima volta che nello stabile di proprietà di Molino confluiscono gli scarti e le vittime collaterali del progressivo incedere della rigenerazione urbana. Già nel 2013 l’amministrazione comunale Pd guidata da Fassino sviluppa un progetto innovativo di “superamento dei campi rom” su cui vengono riversati più di cinque milioni di finanziamenti del ministero dell’interno. Nasce così il progetto La Città Possibile, che insieme alla Croce Rossa coinvolge diversi enti del terzo settore (Liberitutti, Valdocco, Aizo, Stranaidea e Terra del Fuoco) nello sgombero – anche questo “dolce” – della baraccopoli di Lungo Stura Lazio, che culminerà con la distruzione definitiva del campo nel 2015.
Tra i pochi beneficiari del progetto cui viene assegnata un’abitazione temporanea, ventisei famiglie finiscono nel “social housing” di corso Vigevano. Eppure era già noto al Comune che lo stabile non aveva alcun requisito di abitabilità, al punto che nel 2012 era stato posto sotto sequestro per abusi edilizi. Le famiglie si ritrovano così a vivere in appartamenti, singole stanze ricavate dalla dissezione del caseggiato, spesso privi di bagno e allaccio del gas, senza nemmeno ottenere la residenza perché la destinazione d’uso dell’immobile, di tipo commerciale, lo impedisce. Ancora oggi gli abitanti di corso Vigevano non hanno la residenza nel proprio appartamento e pertanto non possono accedere a una serie di servizi essenziali.
Nel 2016 viene aperta un’inchiesta sulla gestione dei fondi de La Città Possibile, conclusasi nel 2017 con l’accusa di truffa aggravata nei confronti di alcuni esponenti di Terra del Fuoco e Valdocco. Il Comune, responsabile politico del progetto, si costituisce parte lesa. Intanto, a solo pochi mesi dall’insediamento in corso Vigevano, iniziano i primi sfratti: esauriti i finanziamenti del progetto, le famiglie non sono più in grado di sostenere le spese di affitto e si trovano ancora una volta senza una casa; alcune andranno a vivere nei campi rimasti (come quello di via Germagnano, sgomberato nel 2020), altre rimarranno frammentate e isolate nel territorio urbano.
A inizio aprile le minacce di sgombero cominciano a concretizzarsi. Un giorno le forze dell’ordine fanno irruzione nello stabile scortando l’avvocato di Molino mentre un nutrito gruppo di muratori chiude l’abitazione di una donna incinta e del suo compagno. Non sono presenti né assistenti sociali né l’ufficiale giudiziario. Arrivo dopo essere stata avvertita da un abitante e parlo con un poliziotto che mi spiega di essere lì per permettere alla proprietà di eseguire lo sfratto in sicurezza, data la pericolosità del luogo in cui ci troviamo. Gli altri abitanti si aggirano tesi e spaesati. Tutti sono stati minacciati che a breve verranno mandati via, chi domani, chi tra una settimana. A nessuno di loro, compresa la famiglia sfrattata, è stato mostrato un titolo del tribunale, né nessuno lo ha mai ricevuto. Lo stesso giorno vengono erette delle pareti di cemento in alcune aree comuni per impedire che le persone sfrattate non si rifugino nei corridoi disabitati. Una ragazza e sua madre aspettano qualcuno fuori dallo stabile: anche loro sono state sfrattate. Vedo accanto a loro due valigie, tutto ciò che nella fretta sono riuscite a raccogliere dei loro averi.
Nelle settimane successive il copione si ripete: la polizia e un losco personaggio assoldato da Molino minacciano gli abitanti, dando a ciascuno termini del tutto arbitrari per andarsene. Agenti e funzionari, poi, arrivano senza alcun preavviso con i muratori a sigillare le stanze, con o senza la presenza degli inquilini, che spesso perdono le loro cose. Nessuno di loro si è mai sentito in dovere di giustificare gli sfratti né l’assenza di un ufficiale giudiziario, dando per scontato che là dentro vivano “abusivi”, “spacciatori” e “criminali”, gente che, come ha detto il capo della ditta che gestisce i lavori per Molino, «non potrebbe stare da nessun’altra parte». Non mi stupisco allora quando un giorno Ibra mi riferisce che due poliziotti si sono presentati alla porta di casa sua intimandogli di andarsene. Appena Ibra ha mostrato loro il contratto di affitto, uno di loro l’ha preso e lo ha strappato davanti ai suoi occhi.
Il 10 maggio gli abitanti trovano affisso sulle porte di casa una recente ordinanza comunale che stabilisce l’inagibilità dello stabile. Pochi giorni dopo, alle otto e mezza di mattina, la polizia ritorna, questa volta con l’intenzione di svuotare un piano e forse l’intero stabile in modo definitivo. Come gruppo di avvocate e di attiviste solidali con gli abitanti siamo riuscite per adesso a fermare lo sgombero: di fronte alla richiesta di una documentazione che giustificasse le loro azioni, poliziotti e proprietà hanno infatti dovuto fare un passo indietro. Bisogna essere presenti dove il potere esercita nell’ombra il proprio arbitrio per mettere sabbia nei suoi ingranaggi e svelarne, allo stesso tempo, ipocrisie e facciate istituzionali.
Se sembra infatti ormai chiaro che la prefettura abbia autorizzato quello che di fatto è uno sgombero dilazionato nel tempo, eseguito attraverso procedure opache e di dubbia legalità, l’intervento del Comune lascia invece alcune questioni aperte. Le proprietà del noto palazzinaro negli anni hanno rappresentato per le varie amministrazioni una sorta di welfare parallelo che sopperisce al progressivo definanziamento e smantellamento delle politiche abitative pubbliche. Allo stesso tempo continuano sfratti e sgomberi, come quello ad aprile dell’occupazione di via Muriaglio, dove vivevano quattordici famiglie.
Che la struttura di corso Vigevano sia inabitabile è noto almeno dal 2012. Con quale ipocrisia il Comune emette adesso un’ordinanza che dovrebbe tutelare la “sicurezza” degli abitanti, mentre questi vengono sgomberati nel silenzio generale e senza che venga offerto loro alcun supporto o soluzione abitativa? Qualche giorno fa Ibra mi ha invitata a bere un caffè nel suo appartamento. Mi ha detto che nonostante le minacce della polizia è intenzionato a resistere fino alla fine. Anche se preferirebbe stare in un posto migliore, sa che se vuole continuare a lavorare e a studiare, questa è la sua unica casa. Da un po’ Ibra riesce a sentire che nelle stanze sigillate, dove prima vivevano le persone, adesso dimorano gli spiriti. Mi chiedo che cosa cerchino questi spiriti nella loro perenne veglia, se pace o giustizia. (flavia tumminello)
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