da: Il Corriere del Mezzogiorno
Nel maggio del 1931 l’emittente tedesca Südwestdeutscher Rundfunk mandò in onda una conferenza radiofonica del filosofo Walter Benjamin incentrata sulle impressioni raccolte durante i suoi soggiorni napoletani. In un passaggio del suo indimenticabile affresco della città, l’autore di Angelus Novus individuava nell’accidia una delle caratteristiche della metropoli mediterranea.
L’accidia è uno dei sette peccati capitali che si riferisce all’avversione per il lavoro, all’operosità. E in effetti uno dei pregiudizi che Napoli si porta dietro da secoli è quello di esser popolata da persone svogliate, restie al lavoro ma indaffarate in traffici e sotterfugi che garantiscono la sopravvivenza giornaliera. Accidia che colpirebbe non soltanto il popolaccio ma, anche, la borghesia formata da dinastie professionali e alimentata da rendite patrimoniali piuttosto che da industriali e imprenditori. In effetti la rappresentazione del Mezzogiorno parassita e inoperoso è una costante dall’unità di Italia al recente dibattito a proposito del reddito di cittadinanza che in molti considerano una misura adottata per ripagare l’elettorato meridionale del Movimento 5 Stelle.
Anche in tal caso, crediamo, ci si trovi innanzi a un pregiudizio che non considera la complessità dei processi e dei contesti storici. Tralasciando per un attimo il ruolo che i meridionali e i napoletani hanno avuto nelle diverse ondate migratorie (prima verso le Americhe in seguito verso il settentrione industriale) nel quale si sono rivelati da un lato un ottimo esercito di riserva per la produzione industriale e, dall’altro, hanno dimostrato una notevole capacità imprenditoriale e commerciale, diventa necessario un esercizio di irrobustimento della memoria. Già nelle descrizioni di Pasquale Villari e di Jessie White-Mario (seconda metà del XIX secolo) dedicate alle miserevoli condizioni del proletariato marginale napoletano emerge con chiarezza la presenza di un’incessante ma sommersa attività lavorativa.
Il lavoro di minuscole botteghe artigianali di falegnami, fabbri, rigeneratori di stoffe, di concerie contribuivano all’insalubrità del centro cittadino. Nelle grotte popolate da un popolo degli abissi partenopeo si producevano spago e ceste di vimini. Lavandaie, domestiche e prostitute fornivano servizi di tipo diversificato ai notabili. Inoltre c’è da considerare tutta la gamma di declinazioni dell’attività commerciale nonché le variegate forme di mediazione. Come dire? In città il lavoro ha sovente assunto una forma parcellizzata, spesso sommersa e oscillante sul crinale tra formale e informale, legale e illegale.
Il XX secolo ha visto lo sviluppo, anche se non privo di disfunzioni e contraddizioni, di un’industrializzazione articolata in settori diversi e in fabbriche di diverse dimensioni nonché di un settore edile estremamente vivace con la conseguente formazione di una classe operaia che ha influenzato lo sviluppo politico e sociale della città. Tuttavia anche in quei settori produttivi più legati alla modernizzazione il lavoro nero, sommerso, precario è stato una piaga che ha mortificato tanto la condizione operaia quanto l’attività di impresa segnata da una miope rincorsa alla massificazione del profitto e una scarsa propensione alla redistribuzione.
Un caso emblematico, in tal senso, è rappresentato dalla vicenda dell’industria calzaturiera ben studiata negli anni Settanta da Enrico Pugliese. Si trattava di una branca produttiva estremamente articolata basata, però, su una struttura occupazionale imperniata sul lavoro a domicilio e decentrato. Operaie e operai lavoravano, nella migliore delle ipotesi, in fabbrichette minuscole incitate nei quartieri del centro cittadino di estrazione popolare e, nella peggiore, erano impiegate nelle proprie abitazioni.
Qui producevano a cottimo condividendo il lavoro con tutta la struttura familiare (con abuso del lavoro minorile). Nel 1973 iniziano a verificarsi i primi casi di paralisi motoria totale tra le operaie che producevano borse e scarpe per l’azienda Mario Valentino e Mediterranea. Le giovani (in molti casi giovanissime) donne erano colpite da polinevrite causata dall’uso di collanti nocivi. Nel 1976 arrivano le prime condanne penali per le aziende confermate definitivamente nel 1985 e la polinevrite venne classificata dall’Inail come malattia professionale. Quella dei collanti è una vicenda emblematica della perversa qualità del lavoro diffuso in una città segnata da un altissimo tasso di disoccupazione dove, ancora oggi, ogni impiego piuttosto che essere rifiutato viene svolto nelle condizioni più estreme e senza le minime garanzie. D’altra parte – sempre in quegli anni – uno dei settori occupazionali più diffusi era il contrabbando di tabacchi lavorati la cui ramificazione, articolazione in diverse figure professionali, tolleranza istituzionale portava a considerarlo la “Fiat del Mezzogiorno”. Così come la nascita del Movimento dei disoccupati organizzati, che tanto peso ha avuto nella storia recente della città studiata con attenzione da Fabrizia Ramondino, testimonia non tanto il rifiuto dell’operosità, quanto la ricerca di sbocchi lavorativi dignitosi liberi dal giogo del lavoro nero.
Ancora oggi, mentre assistiamo all’esplosione del settore del turismo, il problema resta quello di decine di lavoratrici e lavoratori che operano nel sommerso e sfuggono alle statistiche lavorando, però, a pieno regime ricevendo salari vergognosi senza aspettare sussidi né peccare d’accidia. (-ma)
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