Il giorno successivo al rivelatore dialogo, nelle stesse ore e poco lontano da dove si celebra la candidatura dell’Aquila a capitale europea della cultura, davanti un parterre occupato nelle prime file da politici locali diversamente colti, Franco Arminio, paesologo e poeta, post-terremotato irpino, presenta il suo ultimo libro dal titolo Geografia commossa dell’Italia interna, grazie a una bella iniziativa che ha coinvolto tanti giovani studenti, a cura dell’associazione culturale Territori.
Arminio non è certo il primo intellettuale che viene a L’Aquila. Poco prima di lui Oliviero Toscani è venuto a provocare: «Non dovete aspettare la manna dal cielo, vi dovete rimboccare le maniche». E: «Se fossi un ventenne me ne andrei da questa città»; ancora: «Non vedo l’ora di andarmene dall’Aquila, sega chi non si è fatto fotografare». Infine: «L’Aquila non sarà capitale della cultura con questa mentalità provinciale». Si dice che il suo unico obiettivo fosse quello di fare notizia, aizzare l’indignazione, conquistarsi titoli a effetto e, per completare, una campagna pubblicitaria choc per una nuova linea di calzettini e mutande di lana della Benetton. Una grande foto coloratissima e di gruppo con i seguenti personaggi: un orango mano nella mano con l’onorevole Calderoli, Sara Tommasi (vestita!) che stringe in mano un grosso libro, un eccitatissimo cardinale romano trasgender, gli onorevoli Giovanardi e Franceschini che pomiciano, la salma riesumata di Pietro Pacciani, Marco Pannella e un falso invalido meridionale. Il suo conto in banca e ovviamente un terremotato aquilano dall’aria molto provinciale che mima un rutto e che brandisce un arrosticino come fosse una clava.
A seguire il qualcosologo Massimo Cacciari ha rivelato che per ricostruire occorre molta pazienza e un sacco di soldi e che la città che ne verrà fuori non sarà la città di prima, com’era e dov’era. Si vede che ci capisce, che è uno che ha studiato. In fondo anche Arminio, flaneur della desolazione, secondo cui raccontare un paese è come raccogliere una fragola in un bosco in fiamme, ha detto qui a L’Aquila cose banali. Tipo che rimettere su i muri delle case terremotate non vale la fatica, se serviranno a rinchiudersi dentro, arroccati nell’egoismo e nell’indifferenza, se saranno riedificati di nuovo i labirinti dei divieti di accesso, e sosta anche interiore. Rifare una città del tardo capitalesimo com’era e dov’era, sarebbe solo uno sperpero di denaro. Bisogna rifare luoghi in cui accade la vita, si accalora Arminio, e a tal proposito L’Aquila non è affatto una città morta. Perché i luoghi più sono feriti più sono vivi. Perché puoi sognarci un futuro, immaginare un altrove. Avere il privilegio di commettere il fatale errore di scambiare una ricostruzione edilizia per la palingenesi dell’umanità.
«Non bisogna farsi cadere la polvere sull’anima – consiglia Arminio – la polvere che cade dai tetti, dai muri. In voi c’è un batticuore che continua dalla notte del terremoto. E non pensate che ci sia chissà quanta vita a Stoccolma, a quest’ora». Provocando l’inarcamento del sopracciglio ai terremotologi ufficiali, Arminio spiega che la città vuota e crepata oltre le transenne della zona rossa è un luogo di una bellezza indescrivibile. Un rifugio dentro cui ripararsi dal diluvio di parole che cade da ogni parte, mentre “dopo un terremoto – citiamo una frase del suo libro – ci vuole un poco di silenzio, e se si vuole parlare si deve parlare soprattutto dei morti”. Un luogo brulicante di assenza dove abitare non è una stanca abitudine, ma una scelta, uno slancio proibito oltre le transenne, una performance. Come a titolo di esempio quella che ha avuto luogo questa estate, in una delle piazze della zona rossa, così come la riferisce una fontana senza più acqua né città: “Pioggia. Grondaie che sgocciolano. Silenzio. La camionetta dei militari. Rumori di passi che si avvicinano. Vociare crescente. Saluti e baci. Frizzi e lazzi. Silenzio. Musica. Arpa e violini, viole e violoncelli. Impercettibili fremiti di bellezza. Risacche sonore. Applausi. Saluti e baci. Risate. Rumore di passi e poi voci che si allontanano. La camionetta dei militari. Silenzio e poi ancora silenzio”.
E dunque Arminio lancia l’idea bislacca di lasciare non ricostruita, con il suo terzo paesaggio fatto di erbacce, assenza e macerie, almeno una piccola viuzza dei centri storici, dove non è difficile oggi incontrare volpi, ricci e uccelli di bosco che nidificano nelle chiese e nei palazzi signorili abbandonati. «L’Italia interna – continua a parlare Arminio – non si salva guardando indietro ma immaginando cose nuove, cose mai viste. Mi piacerebbe che L’Aquila diventasse la capitale di questa Italia». Un’Italia dove tra i tanti paesi sotto i mille abitanti, dove vivono dieci milioni di persone, muoiono vittime di autismo corale, presidiati da scoraggiatori militanti in servizio permanente. Nella città che addirittura celebra il pettegolezzo se pur imbellettato nella forma della socratica parresia, Arminio suggerisce di costituire cooperative di ammiratori-incoraggiatori, che affrontino gli sguardi torvi e ostili con un sorriso, la tirchieria emotiva con un complimento, la rassegnazione con l’ottimismo. Va bene alla bisogna, aggiungiamo noi, anche l’ottimismo del tutto immotivato.
In Irpinia, negli anni dopo il sisma, racconta Arminio, si è diffuso come una viscosa ragnatela il reciproco sospetto, l’invidia, il rancore contro chi, come politici e ingegneri, con il terremoto si sono arricchiti, la rabbia sorda di chi al contrario è rimasto povero. «Immaginate invece una città erotica. Immaginate L’Aquila come un luogo che possa aiutarvi a fare cose belle, che può far nascere grandi scrittori, artisti, fotografi, pedagogisti. Perché una città così aperta e rotta ce l’avete solo voi». (filippo tronca)
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