La formidabile ascesa dell’Isis, a partire dal 2011, in un area cruciale degli equilibri mondiali, resterà senza dubbio uno degli elementi su cui gli storici del futuro dibatteranno con più interesse. Ne parla diffusamente Sara Montinaro in Daes – Viaggio nella banalità del male (Meltemi, pp. 158, 14 euro), volume agile ma rigoroso nelle fonti, arricchite da ricerche e interviste sul campo. L’autrice disseziona il fenomeno Isis in tutte le sue dimensioni: ragioni storico-politiche della sua ascesa, ideologie e teologie di riferimento, dinamiche sociali. Per il lettore nostrano potrebbe risultare una lettura straniante, esotica e magari terrorizzante; ma stiamo parlando di mondi a noi molto prossimi – non solo per le responsabilità occidentali nelle croniche instabilità del Medioriente, ma anche perchè pezzi di quella storia rischiano di incistarsi nel’immaginario delle nostre periferie, allargando le incognite sul futuro comune.
L’autrice spiega bene come l’Isis non sia una mina esplosa improvvisamente nel caos iracheno e siriano; rappresenta piuttosto il compimento di una storia lunghissima e intricata, che dietro “l’utopia retrospettiva” dei miti arcaici raccoglie tutta l’eredità pesante del Novecento: il colonialismo e la sua crisi; il crollo dell’Impero ottomano; la nascita di ideologie di revanscismo religioso che si intrecciano alle correnti politiche della modernità; il fallimento del laicisimo nazionalista o panarabo. In Daes – l’acronimo arabo di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante – questa miscela esplosiva trova un suo punto di condensazione: tutte queste linee di crisi convergono tra Baghdad e Damasco, nello snodo più bollente del pianeta, e fanno precipitare sulla terra quello che per la generazione di Bin Laden era stata solo un’evocazione virtuale: il sogno di un nuovo Califfato che unisca tutto il sunnismo contro e oltre le frontiere artificiose disegnate dall’Occidente.
“Al Baghdadi, nel suo sermone di insediamento, fa più volte riferimento all’importanza di istituire un Califfato per tutti. L’avverarsi delle profezie di conquista mondiale è una priorità per tutti i credenti, tale da legittimare la conquista dei territori al fine di ‘purificare’ il mondo dagli apostati e dagli infedeli per il volere divino di Allah. L’attitudine e la predisposizione a ciò, comporta, tra le diverse conseguenze, una continua fluidità del perimetro confinale dell’Isis, il cui scopo è mantenere un forte controllo dei territori occupati […] e al contempo avere la propensione (nonché l’obbligo religioso) ad avanzare col piano di occupazione dei territori circostanti. Questo progetto trova le sue radici nel disegno immaginato e pensato da Abu Mussal al-Zarqawi, ben conosciuto nel panorama della jihad. La genealogia dell’Isis, pertanto, seppur di recente formazione, va ricercata in un percorso di più lunga durata, il cui inizio è dovuto ad al-Zarqawi, giordano di origini palestinesi, reduce dall’Afghanistan che rivaleggiava con Bin Laden. Il suo obiettivo era scatenare una guerra civile settaria su larga scala e creare un califfato sunnita”. (pag. 24)
Quando all’inzio del secolo la figura di Bin Laden diventa di pubblica notorietà, le condizioni per dare corpo al “Califfato virtuale” non esistono ancora. A lungo si è discusso sulla natura di Al Qaeda: semplice strumento di provocazione internazionale di ascendenza saudita/pakistana o espressione di minoranza di una giovane borghesia rivoluzionaria araba insofferente degli equilibri mondiali post-guerra fredda? Due elementi genealogici che comunque vanno spesso d’accordo, basta guardare alla storia dello stragismo nostrano, che ha messo sempre insieme provocatori professionisti e imbecilli pseudoidealisti. Quindi Al Qaeda è stata molte cose insieme, soprattutto l’innesco che ha “globalizzato” l’idea del jihad e lo ha lanciato nella contesa geopolitica mondiale. E qui al-Zarqawi – e dopo di lui al-Baghdadi – hanno colto con perfetto tempismo il senso della sfida; le distruzioni in Iraq e Siria, i conflitti settari, le guerre pseudo-civili, le nazioni fallite, rendevano possibile la fondazione di uno “stato”: non di una rete terroristica o di una associazione sovranazionale, ma di una vera e propria entità statale nel senso moderno del termine.
Così si realizza il cortocircuito più dirompente di questa drammatica storia: le utopie califfali, i richiami a una sharia arcaica, le suggestioni puriste, si condensano nella forma stato novecentesca, pericolosamente efficace, con i suoi apparati, il suo personale professionale, i suoi modelli. Tale processo fondativo si concretizza nell’incontro tra la ferocia salafita e la struttura di stato baathista, sopravvissuta nell’Iraq allo sbando. Il Baath, a Baghdad, rappresenta l’eredità “andata a male” del socialismo nazionalista pan-arabo. Quando gli Usa lo spazzano via dall’Iraq (con grande giubilo sionista) gli ultimi eredi di quel fallimento, migliaia di quadri politici, amministrativi, militari, destinati alla povertà, alla marginalità o alla persecuzione settaria, incontrano le velleità jihadiste. E il fatto che Saddam e salafiti fossero stati nemici mortali, non conta più molto. I baathisti conoscono le tecniche politico-amministrative del farsi stato, i salafiti qaedisti sono in grado di ammantare di religiosità e suggestioni millenariste questi materialissimi processi. Così nasce il mostro Isis.
“La struttura parastatale e l’impianto di governance che l’Isis ha sviluppato nel corso degli ultimi anni, le tattiche di conquista dei territori, il loro assoggettamento e il controllo invasivo della popolazione, testimoniano l’utilizzo delle modalità adoperate dagli ex appartenenti al regime di Saddam Hussein. Nonostante la complessità e gli intrecci che emergono tra i due movimenti, risulta ormai pacifico che all’interno della cerchia dell’Isis gli ex baathisti hanno ricoperto posizioni di rilievo. […] L’Isis aveva emesso un’ordinanza con la quale su cinquanta posti da attribuire ai leader locali, quaranta erano stati assegnati a ex baathisti e si disponeva che ogni capo di origine diversa dovesse essere affiancato da un ex membro del partito Baath“. (pag. 41)
Naturalmente non si trattava solo di affinità “comunitaria” antisciita; i quadri di Saddam erano assai ricercati per altre ragioni: “Le loro capacità militari e logistiche, la conoscenza della regione, delle tribù locali e gli snodi lungo i quali le vie del commercio illegale si sviluppano, sono solo alcuni dei vantaggi acquisiti dal sedicente Stato Islamico. La rete di intelligence e la struttura parastatale creata in pochissimo tempo sono i pilastri su cui Daes ha pianificato la propria compagine architettonica di governance del territorio. Per citare qualche esempio eclatante, Hajji Bakr, ex ufficiale nonchè punta di diamante dell’intelligence durante il regime di Saddam, è stato lo stratega che ha disegnato l’organismo amministrativo dello Stato Islamico […]. Non a caso l’utilizzo della paura (già adoperata durante il regime di Saddam) come strumento per controllare e sottomettere chi era riluttante al riconoscimento dei nuovi occupanti diventa una pratica quotidiana utilizzata dai jihadisti. Formule elaborate di tortura e crudeltà sono i fondamenti su cui Daes ha imposto un controllo invasivo di tutta la società. […] Se non fosse stato per questa alleanza, al-Baghdadi non sarebbe mai stato in grado di dar vita al suo progetto politico, la creazione di un Califfato islamico“. (pp. 45-46)
L’autrice esplora la gerarchia dei poteri che in brevissimo tempo si costituiscono tra Iraq e Siria, in un territorio grande quanto l’Inghilterra. L’autorità discende dal vertice califfale e arriva ai governatori delle province e ai diversi dipartimenti – quello della guerra, del welfare, del commercio, delle finanze pubbliche, dell’esazione fiscale e della cura del settore cruciale, media e propaganda. Quest’ultimo campo di attività è stato quello che ha destato più impressione in Occidente: i “barbari” gestivano con estrema cura i processi di comunicazione e avevano piena consapevolezza della centralità dell’immaginario. Ma quali erano i contenuti destinati alle platee dei simpatizzanti?
“Il fulcro, detto altrimenti, non è la violenza ma il sogno, un ideale complesso e incarnato che la propaganda si propone di confermare e di rinnovare a ogni passaggio, contribuendo al processo di distaccamento dal reale e il suo conseguente rinchiudersi in pregiudizi sempre più manipolati e saldi […] Per questo ai contenuti negativi, sanguinolenti, si accompagnano quelli positivi su quanto sia lieta e serena la retta vita nel califfato. […] L’Institute for Strategic Dialogue, un think thank londinese, ha scoperto la distribuzione di un backup di materiali dell’Isis con circa novantamila elementi, migliaia di tutorial, immagini, indottrinamenti in diverse lingue (inglese, francese, tedesco, russo), i cui contenuti variano da elementi di propaganda a indicazioni su attentati e attacchi”. (pag. 75)
La casa di produzione dell’Isis ha pubblicato anche videogiochi per bambini ispirati ai combattenti del Califfato. Quindi l’estetica della violenza, che abbiamo osservato preoccupati per la sua mefistofelica efficacia, è solo parte di una comunicazione più complessa e raffinata. L’analisi non può basarsi solo sulle efferatezze videoregistrate e sbandierate: esse non sono poi molto distanti dalle pratiche adottate da tutti i sistemi di Terrore Rivoluzionario (inventati in Occidente, che di teste tagliate ha un certa esperienza), la fase in cui un nuovo potere annichilisce ogni resistenza e si legittima come nuova sovranità. Daes ha solo “confezionato” le sue video-brutalità dentro una straegia comunicativa ben precisa.
Naturalmente, su tutti i dipartimenti e dentro le complesse dinamiche di governance, ha vigilato un robusto servizio segreto e una rete di spionaggio interno – tra i dipartimenti, i funzionari, i militanti e nei territori – degna degli apparati della guerra fredda: un sistema in grado di gestire l’apporto di quarantamila combattenti stranieri di una dozzina di nazionalità diverse.
Un capitolo intero è dedicato al rapporto tra la donna e il progetto Daes, ed è sicuramente il più intenso di questo libro. “Abbiamo potuto altresì vedere alcuni elementi che indicano l’estremo approccio misogino di Daes; un sistema basato sullo sfruttamento del genere e sul dominio sessuale, in cui l’istituzionalizzazione della schiavitù e la creazione di una teologia dello stupro come attività religiosa, sono solo alcune delle pratiche di annichilimento e asservimento utilizzate nei confronti della donna. […] Qual è dunque il ruolo della donna in Daes? Ha avuto solo una funzione secondaria e passiva oppure, in un sistema di subalternità, si è ritagliata dei ruoli di protagonismo all’interno del Califfato? Se si, quali? […] Lo Stato Islamico è stata la prima organizzazione jihadista (a parte i ceceni che utilizzavano le donne per attacchi kamikaze) a individuare le donne come soggetti da intercettare e includere nel progetto politico, compreso il jihiad quale azione pratica. Tra le funzioni sociali su cui Daes faceva propaganda, prima tra tutte, vi era la nascita dei cuccioli del Califfato, ossia i jihadisti di domani, nonchè il futuro, la nuova generazione che avanza”. (pp.103/105)
Qui si apre una quantità di temi e suggestioni che meritano una lettura approfondita, per quanto dolorosa: si va dalla compravendita delle schiave yazide (con regolari tariffari), alle raffinate tecniche di reclutamento sul web rivolte a ragazzine occidentali promettendo amore e avventura, alla costituzione di battaglioni di polizia morale e donne combattenti, talmente rigorose da terrorizzare le popolazioni locali. Le aporie del rapporto jihadismo-modernità si evidenziano con chiarezza proprio nelle questioni di genere: il waahbismo, l’hanbalismo, il salafismo (le correnti teologiche che informano Daes) vorrebbero le donne mogli/madri sostanzialmente recluse; ma in realtà lo Stato Islamico ne sollecita il protagonismo in molte funzioni necessarie – soprattutto come carnefici di altre donne inquadrate nelle categorie della nemicità o della sottomissione. E, maturata la sconfitta militare del Califfato, sono proprio le donne prigionere, che l’autrice visita nei campi di Al-Hol-Camp e Roj Camp, a darle l’idea che l’Isis conserva un suo minaccioso potenziale che la sconfitta non ha azzerato: le donne – madri e vedove recluse, prive di tutto, attendate con bimbi piccoli, prigioniere senza prospettiva – si sono organizzate con dura continuità all’interno dei campi, riproducendo i ruoli che rivestivano nel Califfato; crescono i figli nell’odio, aspettano il momento giusto per colpire i loro custodi o provare a scappare, e attendono il ritorno di Daes, sotto la guida di un nuovo Califfo, che verrà a liberarle e consentirà loro di riprendere la funzione militante che hanno scelto come destino.
Un libro che vale la pena leggere, per capire una storia che non è affatto chiusa. (giovanni iozzoli)
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