Qualche giorno dopo i numerosi e improvvisi scioperi di novembre 2016 cui hanno partecipato molti dei lavoratori delle aziende di call center sparse per l’Italia, incontro G., uno dei dipendenti della sede napoletana di Almaviva Contact. «Il 26 novembre – racconta – l’azienda ha cominciato a forzare alcuni istituti contrattuali, decidendo unilateralmente su ferie e giorni festivi. A quel punto i lavoratori hanno deciso di togliersi le cuffie, alzarsi dalla loro postazione e scendere in cortile per protestare. Poi sono stati indetti due scioperi, uno il sabato e uno la domenica. Uno striscione con la scritta “Almaviva non si tocca” è stato affisso in azienda sul vetro che divide il perimetro del fabbricato dalla strada. Il capo del personale ha ordinato alle guardie giurate di levarlo e sono cominciate le tensioni. Il giorno dopo l’azienda ha chiamato la polizia che ci ha trattato come delinquenti».
G. lavora da dieci anni per Almaviva Contact, dal 2008 con un contratto a tempo indeterminato part-time di otto ore al giorno, a giorni alterni, per un totale di ventiquattro ore settimanali; risponde alle chiamate del servizio assistenza notturno “furto e smarrimento” della Vodafone. Il turno di notte l’ha scelto lui: ci sono maggiorazioni economiche, non è presente nessun team leader e non si applicano parametri qualitativi e quantitativi di valutazione della prestazione. Almaviva Contact, azienda in outsourcing che gestisce il servizio di assistenza clienti (customer care) della Vodafone, è una delle dodici società del gruppo Almaviva, che a marzo 2016 aveva annunciato quattrocento esuberi nella sede di Napoli, mille e seicento settanta in quella di Palermo e novecento e venti in quella di Roma. Il 31 maggio 2016, dopo proteste e scioperi da parte dei lavoratori, viene siglato un accordo al ministero dello sviluppo economico che avrebbe dovuto tutelare le sedi di Napoli, Roma e Palermo per diciotto mesi. L’accordo prevedeva il ricorso ai contratti di solidarietà per i primi sei mesi e alla cassa integrazione straordinaria per i successivi dodici. Dopo solo tre mesi, l’azienda ha riconvocato i sindacati definendo l’accordo intrapreso impercorribile a causa delle “condizioni di mercato non favorevoli”.
«Non è una crisi di domanda di commesse ma di ricavi e guadagni manageriali – dice G. –. Vogliono chiudere delle sedi perché hanno margini di produttività più bassi rispetto ad altre. Almaviva ci fa pressione da anni. È dal 2014 che siamo sotto ammortizzatori sociali». G. racconta che Almaviva Contact ha sempre cercato il controllo individuale della prestazione di lavoro, contraddicendo il contratto nazionale che prevede che qualsiasi dato relativo alla prestazione dei dipendenti venga raccolto in un sistema che tiene conto del servizio svolto dall’intero gruppo e non di quello del singolo impiegato. «Quando il cliente dà un voto alla mia prestazione, quel voto viene messo su un piano aggregato, è rivolto al team di cui faccio parte. L’azienda invece vorrebbe avere la possibilità di controllare ogni singolo voto, così da poter giustificare un eventuale licenziamento per mancata aderenza ai loro parametri di produttività».
Nell’accordo del 31 maggio vi erano non solo evidenti abbassamenti salariali ma anche la possibilità di attivare il controllo da remoto, con cui l’azienda può controllare in tempo reale il singolo voto dell’utente, ma anche registrare le telefonate e conoscere i tempi di risposta e i tempi di “not ready” (i tempi in cui il lavoratore non è in linea durante l’attesa tra una chiamata e l’altra).
Il mercato dell’outsourcing dei call center non è disciplinato da alcun regolamento nazionale o europeo. Nel 2003 in Italia si provò a regolarlo attraverso un contratto collettivo, ma il piano non riuscì a decollare a causa della mancata adesione del gruppo COS, uno dei più importanti outsourcer italiani. Un altro tentativo si è avuto con la circolare ministeriale n. 17/2006 del ministro Damiano, che aveva l’obiettivo di limitare l’abuso dei contratti a progetto, utilizzati per anni per ridurre il costo del lavoro e incrementare i profitti facendo passare come autonomo un lavoro che era a tutti gli effetti un “lavoro alle dipendenze”.
Nel cuore del Centro Direzionale, quasi all’altezza del Vasto, incontro V., una lavoratrice di Gepin Contact Spa (società che fa capo al gruppo Gepin). Questa azienda ha lavorato per quattordici anni in outsourcing come servizio assistenza clienti di Poste Italiane. È dicembre e i lavoratori di Gepin, dopo aver partecipato agli scioperi, attendono la sentenza del Tar del 27 gennaio 2017.
«Dall’unione di Gepin con Poste italiane – racconta V. – è nata una terza società, Uptime, con gli stessi vertici di Gepin Contact. Una fetta delle attività è stata affidata ad Uptime da Poste Italiane e poi riversata su Gepin Contact». Nel 2014 la situazione comincia a incrinarsi poiché le attività di customer care di Gepin e di Uptime vengono messe in gara d’appalto. «Da quel momento è cominciata la nostra lotta: scioperi, manifestazioni e cassa integrazione. Mentre per i cento lavoratori Uptime è stato stipulato un accordo con cui Poste Italiane si fa carico della loro situazione, per i trecentocinquanta lavoratori di Gepin (duecentoventi a Napoli e centotrentadue a Roma) la grande azienda italiana a partecipazione statale non ha firmato un accordo per tutelarci né si è presentata al tavolo delle trattative».
Nel maggio 2016 c’è un barlume di speranza, il vice ministro del ministero per lo sviluppo economico, Teresa Bellanova, dichiara che ci sarebbe stata continuità lavorativa per i dipendenti di Gepin Contact, ma tra la fine di luglio e l’inizio di agosto 2016 i lavoratori vengono licenziati. La gara viene vinta da due società: System House a 0,29 centesimi e E-Care a 0,34 centesimi. Poste Italiane sceglie di assegnare la gara a E-Care, ritenendo la proposta di System House davvero bassissima, anche in una gara a massimo ribasso. A settembre 2016 viene stipulato al ministero un accordo che prevede che la società vincitrice della gara si faccia carico dei lavoratori. «Un accordo che ci ha lasciati molto perplessi per i tagli sul salario fino al trenta per cento e la perdita dell’articolo 18», spiega S., anche lei lavoratrice di Gepin, che nel frattempo ci ha raggiunte. Poco dopo la firma dell’accordo, il Tar sospende l’assegnazione dei lotti di gara a E-Care, in seguito al ricorso della prima azienda, System House.
Il 27 gennaio 2017, la tanto attesa sentenza del Tar ha dichiarato la vincita di System House, quella dell’offerta bassissima, che a differenza dell’altra azienda non intende farsi carico dei trecentocinquanta lavoratori. “Ma non finisce qui. Bisogna ricominciare le trattative”, mi scrive V. in un messaggio.
In un mercato basato sulle logiche del massimo ribasso, le piccole società che, nascono come funghi velenosi su un terreno non fertile, diventano contenitori usa e getta di lavoratori. La dinamica è semplice ma alimentata da un processo complicato: creo una piccola società satellite, assumo lavoratori con un contratto che può apparire dignitoso per i tempi che corrono, creo un servizio e faccio la gara d’appalto. Una società committente si aggiudica il servizio che, in “casa” per così dire, sarebbe troppo dispendioso (contratti, diritti dei lavoratori), invece esternalizzando ad altre società, verso le quali non si ha nessuna responsabilità giuridica, diventa comodo, pulito ed economico: il delitto perfetto. Quando il servizio non serve più, o non è conforme ai parametri produttivi, se ne può fare a meno e qualsiasi azienda committente, che non ha nessuna responsabilità nei confronti dei lavoratori assunti da quella piccola società che svolge quell’unica commessa, può lavarsene tranquillamente le mani.
Che fine faranno i lavoratori di Gepin e Almaviva? Per ora non s’intravedono spiragli. Almaviva ha proposto vie d’uscita molto vaghe, come la partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda (che non si sa bene quali siano visto che la società dichiara di essere in perdita) e una gestione condivisa attraverso le rappresentanze sindacali, che però porterebbe un abbassamento del salario, l’eliminazione degli ammortizzatori sociali e l’introduzione del controllo della prestazione individuale. Intanto Almaviva, dopo avere tanto denigrato le aziende che spostavano i loro capitali all’estero, sta delocalizzando in Romania, dove può contare su manodopera a basso costo e sulla copertura dell’Unione Europea. I lavoratori di Gepin, dopo l’ultima sentenza del Tar, si sentono abbandonati e chiedono un ulteriore incontro al ministero. Continua l’attesa, che in questi casi non è mai breve. (marzia quitadamo)
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