È in libreria a Napoli, Roma, Bologna, Milano e Torino il numero quattro de Lo stato delle città (qui indice e distribuzione). Pubblichiamo a seguire, estratto dalla rivista, l’articolo Le alternative infernali di Stefano Portelli.
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Isabelle Stengers e Philippe Pignarre le chiamano “alternative infernali”: ambiente o lavoro? Salute o Economia? Diritto alla casa o diritto alla proprietà? Sovranità o cosmopolitismo? Italiani o migranti? E così via. Ogni volta che ci troviamo “costretti ad accettare” un polo di una dicotomia di questo tipo siamo caduti vittima di un sortilegio, come lo chiamano loro; il discorso egemonico si è impossessato di elementi a cui non possiamo rinunciare, e li ha messi gli uni contro gli altri, obbligandoci a scegliere.
Durante questa quarantena è successa la stessa cosa: siamo stati costretti a posizionarci ai due lati di una faglia immaginaria: da un lato i difensori della salute, dall’altro i difensori della libertà; da un lato i diritti degli anziani alla cura e alla protezione, dall’altro i diritti dei bambini all’istruzione e alla socialità. Ma come si può rinunciare a una qualunque di queste cose? Le alternative infernali si impongono su una società fluida, in cui le alleanze sono sempre possibili, e frammentano il discorso, favorendo sempre chi sta in alto.
In semiotica si chiamano relazioni indicali e relazioni iconiche. In un sistema fluido, le relazioni sono indicali: opinioni e valori dipendono dalla posizione relativa di chi parla, ognuno è libero di transitare tra punti di vista diversi per ogni interazione, di assumere un’identità e quella contraria a seconda di chi ha davanti. Lo stato moderno invece funziona imponendo delle relazioni iconiche, tra identità rigide, definite e immutabili. Traccia confini lineari e costringe ognuno a scegliersi una casella che lo rappresenti: ma non c’è un’identità che non ci metta a disagio, in questo mondo iconico. In tutti i dibattiti della quarantena siamo stati costretti a ragionare su polarità forzate, che contenevano sempre una parte irrinunciabile e una parte insopportabile. L’isolamento domiciliare, per esempio, è sia un gesto di solidarietà verso i più deboli, che un ripiegamento individualista a protezione di sé. Nell’esigenza di “riaprire” e di tornare alla normalità si confondono il legittimo bisogno di riprendere la scuola e la strada, e l’egoista priorità data ai profitti sulle vite umane. Chi ha lavorato fuori casa in quarantena, ha dovuto o ha potuto? Se avesse potuto scegliere, avrebbe preferito rinunciare allo stipendio, o rischiare il contagio?
È impossibile sbrogliare questo intreccio: il nostro linguaggio sembra incapace di dare una forma a quello che sta succedendo, perché è costretto ad assumere posizioni assolute, innaturali, accettare o rifiutare in blocco. Lo stato costruisce simboli iconici: bravi cittadini ubbidienti e ribelli irresponsabili. Nella realtà non incontriamo mai nessuno dei due, ma queste icone occupano il nostro spazio discorsivo, obbligandoci a proiettarlo sugli altri. L’obiettivo di questa stregoneria è quello di non perdere il potere sulla rappresentazione. Soprattutto durante le crisi, lo stato è debole, e la società è pronta a riappropriarsi delle narrazioni, come un popolo in rivolta si riappropria velocemente dello spazio pubblico che sembrava aver perso. Le istituzioni devono fare un enorme sforzo per riprendere il controllo del discorso.
Faccio un esempio da un altro paese. La notte del 21 marzo, poche ore dopo che il governo del Marocco annunciasse l’inizio del confinamento, migliaia di persone sono uscite sui balconi delle loro case, nelle città di Tangeri, Fez, Tetuan, e di alcuni paesi della costa come M’diq, vicino Ceuta. Per due ore hanno gridato tutti insieme dai balconi, dalle terrazze e dalle finestre, nonostante la pioggia torrenziale – tutto il nord del paese è stato colpito da una tromba d’aria proprio quella notte. Dalle medine diroccate, dai centri coloniali, dai palazzi scrostati delle periferie, risuonavano due invocazioni gridate da migliaia di voci: il takbir, cioè “dio è grande”, e il latif, un’invocazione sufi che si usa per le calamità naturali. Alcuni le gridavano piangendo, altri compostamente, molti insieme ai bambini, anche loro in lacrime; quasi tutti agitavano i cellulari per filmare e condividere lo spettacolo su internet, trasformando le città viste dall’alto in un cielo stellato che rimbombava di queste grida collettive nella notte. “La pioggia aumentava il carattere epico e apocalittico della preghiera”, ha scritto l’antropologo catalano Josep Lluìs Mateo, che doveva essere a Tetuan a fare lavoro di campo e che ha raccolto le decine di video e foto rimbalzate sulle reti sociali. Nei giorni precedenti c’erano già stati episodi di effervescenza collettiva legati al virus. Nel quartiere Derb Sultan di Casablanca bande di ragazzi avevano purificato le strade con la varechina e i bracieri di incenso, cantando in coro Corona eh eh come se invocassero un santo. Alcuni leader sufi avevano recitato il latif contro il virus nel mausoleo di Moulay Idriss, vicino Fez. I fondamentalisti salafiti avevano dichiarato su Facebook che il virus era un castigo per il laicismo dilagante, e che lo stato non poteva chiudere le moschee e proibire le preghiere collettive. Altri ulema invece avevano tirato fuori i versetti coranici sulla sospensione dei rituali di massa e dei pellegrinaggi in tempo di calamità. Non c’è niente di medievale in tutto questo, anzi, il dibattito ricorda molto da vicino il nostro: la società riflette collettivamente sull’evento calamitoso, nei termini a essa propria, tentando di trovare un senso.
Quella stessa notte però la polizia ha iniziato a fare le ronde in strada e a far risuonare l’inno nazionale nelle piazze, chiedendo alla popolazione di cantare per il re e per la patria, oltre che per dio; hanno iniziato a portare gli imam fedeli al governo nei quartieri con i megafoni, per convincere la popolazione a recitare in casa e non sulle terrazze. Sempre la stessa notte, gruppi di ragazzi guidati da predicatori fondamentalisti si sono riversati in strada chiamando i fedeli a rompere il confinamento per pregare insieme. Due uomini sono stati arrestati a Tangeri il giorno dopo, accusati di aver promosso le manifestazioni in strada. Nel giro di pochissimo tempo, il grande rituale spontaneo del 21, in cui confluivano tutte le sfumature della religiosità marocchina, è stato rappresentato come l’iniziativa di pericolosi fondamentalisti che lo stato doveva tenere a bada per proteggere la popolazione.
“Queste note etnografiche – conclude Mateo nell’articolo in cui racconta tutto questo – mostrano il potere del simbolico nei momenti di anomia e crisi sociale estrema, e il tentativo delle autorità di evitare che le rappresentazioni del bene e del male sfuggano al loro controllo”. Alla molteplicità di significati sovrapposti e contemporanei con cui i diversi settori di società cercavano di reagire alla minaccia del virus si è sostituita una dicotomia forzata tra obbedienti e disobbedienti, le cui regole erano dettate dallo stato.
Anche da noi l’esplosione comunicativa e simbolica dei primi giorni di quarantena ha portato milioni di persone a cercare di esprimere gli uni agli altri, da dentro le case, la molteplicità delle rispettive sensazioni: il bisogno di sentirsi vicini e proteggersi a vicenda, la paura di morire o contagiare i propri cari, la rinuncia improvvisa alle strade e alle piazze, la consapevolezza dell’insufficienza del sistema sanitario, lo sconcerto per la mancanza di misure di sicurezza nelle fabbriche e nelle residenze, l’irresponsabilità delle autorità che avevano sottovalutato il contagio. Ma contro questa azione simbolica collettiva, che rischiava di appropriarsi dei significati, lo stato ha costruito in fretta e furia un traballante sistema coercitivo che ha immediatamente catturato l’attenzione di tutti. Le disposizioni, i controlli e le sanzioni arbitrarie, l’ideologia alienante dello spazio privato, le continue ordinanze d’emergenza, rilanciate acriticamente dai media dominanti, hanno occupato con la forza il centro del discorso, facendo ricadere le colpe del contagio sulla società stessa, frammentando qualsiasi tentativo di coesione sociale intorno al pericolo comune e recuperando il monopolio della rappresentazione.
L’antropologa argentina Rita Segato ha detto già a fine marzo che la battaglia finale sarebbe stata sui significati. Sarà “una grande disputa per chi avrà il potere di costruire la narrativa finale su quello che ci è successo”. Il virus è un significante vuoto, un evento della storia naturale (che contiene l’umanità e i danni che provoca all’ambiente), su cui la società deve costruire dei significati. Segato ha contato già sei narrative, sei famiglie di significati che si contendono lo spazio discorsivo su tutto il pianeta. “Qual è la tua cospirazione preferita?” dice un meme, elencandone dieci: dal complotto cinese al maya dislessico che diceva che la fine del mondo era nel 2012 invece che nel 2021. Nei primi giorni della quarantena, decine di referenti politici, teorici, filosofici, si sono affrettati a spiegarci cosa stava succedendo, senza aver avuto il tempo per capirlo davvero, ognuno pescando nel proprio repertorio. Involontariamente hanno contribuito a frammentare le narrazioni, e ognuno ha dovuto scegliere la sua, per lo più in base a quelle che risuonavano di più con le proprie condizioni materiali di isolamento, mentre chi non aveva dati è rimasto direttamente tagliato fuori dal dibattito. Difficilissimo ricomporre questo campo.
Di fronte a questo, è difficile anche ricordarsi che il virus è arrivato in un momento storico in cui il mondo sembrava sull’orlo di una grande trasformazione. Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 enormi rivolte popolari hanno attraversato paesi molto diversi tra loro, dalla Francia al Cile, da Hong Kong alla Catalogna, mettendo in discussione le istituzioni e lo stesso patto sociale su cui si basano gli stati nazionali, al punto che a dicembre un opinionista di Bloomberg aveva intitolato un articolo: “Un revival globale dell’anarchia potrebbe sorpassare gli anni Sessanta”. La frammentazione della quarantena ha portato ognuno a rinchiudersi nelle frontiere e nel discorso del proprio stato, facendoci perdere di vista questo quadro globale. Non appena il discorso si richiude, chi ne approfitta è l’estrema destra, che si adatta incredibilmente bene alle alternative infernali: per loro non ha importanza appropriarsi dell’autoritarismo che obbliga a rinchiudersi, o del massimalismo che esorta a trasgredire – vogliono solo l’egemonia sul discorso.
Quale sarebbe l’antifascismo durante l’isolamento? Il 25 aprile alcuni hanno chiamato la gente a cantare dai balconi, altri a manifestare in strada nonostante la quarantena. Credo che abbiamo tutti sofferto di questa alternativa infernale: entrambe le scelte erano forzate, e lo si sentiva tanto nelle piazze come sui balconi. Come spesso accade, la posizione più intelligente mi pare sia venuta invece dalle strade della periferia. A Roma est, senza proclami né dichiarazioni pubbliche, quel fine settimana centinaia di persone sono uscite di casa per un’oretta, molti con i bambini, a godersi un po’ di sole, magari con qualche scusa (ma i negozi erano tutti chiusi!). Si rispettavano le distanze e si indossavano le mascherine, nonostante il divieto tassativo di uscire a passeggiare. Hanno tutti trasgredito la legge, ma non il buon senso, rendendo palese che esiste un modo collettivo e antiautoritario di gestire il distanziamento necessario a frenare il virus. La stessa polizia ha capito che era inutile tentare di controllare la situazione e nella maggior parte dei casi ha fatto finta di non vedere.
Dopo la predica di padre Paneloux nella chiesa di Orano, scrive Camus nella Peste, “mentre gli uni continuavano la loro piccola vita adattandosi alla clausura, per altri da allora in poi l’unica idea fu quella di evadere dalla prigione”. In questi mesi abbiamo sentito citare tanto Foucault e i meccanismi di governo dell’epidemia, ma è mancata l’attenzione alle reazioni collettive che descrive Camus, alla solidarietà che si crea attraverso gli schieramenti, preludio di ogni rivolta. Solo comprendendo queste reazioni possiamo raccogliere le forze necessarie per rispondere ai pericoli che verranno dopo il virus: la crisi economica, gli sfratti e i debiti di massa, il salvataggio colossale delle banche, e la dispersione quasi completa dei fronti di lotta. (stefano portelli)
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