La notizia ha sensibilizzato ogni media, qualsiasi la tecnologia impiegata: carta stampata, radio e tv – locali e nazionali – hanno posto in risalto il boom di turisti che ha interessato la città in agosto. Le parole chiave che indicizzano il traffico delle informazioni via web non mentono e assegnano al ferragosto una posizione cardine. Napoli ha confermato il suo ritrovato trend di imprescindibile città d’arte, aprendosi a una popolazione altra che non i suoi cittadini, troppo presi dall’emigrazione verso altri lidi pur di non starsene in città, mentre quelli rimasti hanno goduto di un silenzio che sembra già un ricordo.
Al contempo, la cronaca sensazionalista non ha smesso di sottolineare il dato delle Campania Artecard terminate poco prima dell’Assunta, delle file nei musei cittadini, del bastimento di opere che raccordano un deposito di beni culturali tra i più assortiti, concentrati e preziosi di tutta la penisola. Non visitando quei musei, ma scrivendone soltanto, gli stessi autori di quei bollettini hanno dimenticato di ricordare quanto il visitabile fosse posto sotto scacco dall’assenza del personale a garantirne la fruizione. Palazzo Reale metteva a disposizione tredici sale su trenta, la certosa di San Martino ne chiudeva diverse a sua discrezione quotidiana, Capodimonte idem. Insomma, vuoi lo scarso numero di personale addetto presente, vuoi un flusso non facilmente controllabile, molto di quel che c’è da vedere era interdetto alla visita.
Niente di tutto questo veniva naturalmente annunciato in rete: le informazioni a riguardo potevano essere raccolte solo visitando i siti interessati. La biglietteria, se dotata di buon senso, avvertiva la clientela delle condizioni dando modo al visitatore di scegliere il da farsi. Il buon senso però scarseggia quando bisogna approfittare dell’altro pur di far profitto. E così il fine corsa diventava palese solo una volta spiato ogni possibile percorso a disposizione: molti stavano dentro per uscirne poco dopo. Che sarà mai: si godano il paesaggio!
Una fotografia degli spazi espositivi racconta dell’assenza di una curatela che potesse documentarli, di indicazioni di percorso che ricordano le strade provinciali dell’appennino abbruzzese, di personale sempre pronto a trascurare il flusso preferendo raccordarsi quando possibile, pur di fare due chiacchiere e ingannare il tempo.
Vittorio, Canon al collo, da Imperia ha raggiunto Napoli per la prima volta con la moglie, concedendosi una pausa dalla famiglia «ché tanto ormai i figli sono grandi e si fanno le loro vacanze». Dal cortile della Certosa mi ha detto che «però così è un peccato: non tutti possono tornare, sebbene non dispiacerebbe. Esistono città in Italia, come Mantova, che hanno saputo interpretare al meglio questa stagione in grado di muovere masse un tempo insperate. Certo, Napoli è Napoli, ma non merita essere trattata in questo modo. Soprattutto, non lo meritiamo noi: i turisti».
Vittorio voleva solo sfogarsi e così mi ha distolto da una conversazione con un amico pur di farlo. Alla fine mi ha chiesto le solite dritte su dove sfamarsi «ché di TripAdvisor non mi fido» e ha ripreso a passeggiare e scattare foto a raffica. La moglie aggiornava la posizione sui social documentando il tutto tramite immagini. «Questo giardino, poi. Lasciamo perdere!» ha esclamato allontanandosi. In effetti, lasciare le cose al loro destino racconta lo spirito napoletano meglio di ogni narrazione riabilitativa: il giardino dell’eremo di San Martino campa di suo ché fortunatamente la natura non si chiede il perché debba continuare. Eppure, risulta evidente lo stato di abbandono in cui versa.
Anche in questa circostanza Napoli sembra aver confermato la sua vocazione alla veduta: proprio lì dove lo sguardo è destinato a perdersi nella grandezza, scema l’attenzione al particolare. Così posso garantirvi che tutti hanno fatto foto panoramiche, un po’ come la stampa sensazionalista. Peccato solo si perdano i dettagli. (antonio mastrogiacomo)
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