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recensioni
9 Settembre 2010

Le due città di Antonio Capuano

Cyop e Kaf
(disegno di cyop&kaf)

A vedere L’amore buio, ultimo film di Antonio Capuano, presentato a Venezia fuori concorso e uscito contemporaneamente nelle sale di tutta Italia, si direbbe che il regista non faccia altro che rifare sempre lo stesso film, un po’ come Raffaele La Capria ha scritto, in definitiva, sempre lo stesso libro. Ad alcuni potrebbe sembrare un difetto, ma non dipingeva Morandi sempre le solite dieci bottiglie? Certe ossessioni meritano una ricerca senza fine.

Qual è la questione che sembrano sottoporci tutti i film di Capuano, almeno tutti quelli in cui l’occhio della camera è puntato sulla gioventù partenopea? L’impenetrabilità delle caste cittadine? Una organizzazione sociale racchiusa in rigidi compartimenti stagni? Nel suo ultimo film il regista posa il suo sguardo, che è raffinato, indagatore, mai scontato, sui figli di due minoranze: l’alta borghesia e ciò che resta del sottoproletariato napoletano (quando si farà un film sui restanti settecentomila napoletani?). Queste due caste, che prima erano tenute insieme da un rapporto certo servile, ma che era pur sempre un modo per conoscersi, oggi sembrano non avere altro modo di venire in contatto che lo scontro frontale: una rapina, uno stupro, uno schiaffo dal motorino. Episodio di partenza del film, infatti, è uno stupro di gruppo ai danni di Irene, figlia della Napoli benestante. Ciro, uno dei ragazzi che hanno commesso la violenza, decide di pentirsi denunciando anche tutti gli altri. Il film ci racconta, osservando con estrema attenzione i protagonisti, la redenzione del carnefice e la capacità di perdono della vittima, insinuando però il dubbio che il carnefice sia in realtà vittima di una più grande ingiustizia sociale, e che la vittima, portando con sé le colpe dei padri, non sia poi così innocente. Una situazione complessa che non impedisce il loro avvicinamento, il loro oscuro amore.

I momenti migliori del film sono quelli in cui le immagini la fanno da padrone: i tuffi, con i rumori sordi del subacqueo, ci ricordano alcune belle pagine di Ferito a morte di La Capria, solo che chi salta in acqua oggi è incapace di godere appieno della “bella giornata” perché nessuno ha pensato di dargli gli strumenti per farlo (a dirlo è il giovane protagonista, nel rap che chiude il film e che pare sia stato scritto dallo stesso regista); gli sguardi, tra campo e controcampo, volutamente esasperati, lunghi, non televisivi, perché il regista non vuole farci capire cosa vogliono dirsi gli attori con lo sguardo: vuole farcelo sentire; ma anche la città raccontata attraverso le sue crepe, i suoi muri, le sue ferite ricomposte al tavolo di montaggio; la bellezza della natura sottratta agli abitanti della città: Nisida appartiene al carcere e alla Nato, la costa e il panorama alle elite.

La scena della festa per la maturità di Irene sembra sintetizzare in poche immagini la napoletanità teorizzata da La Capria nell’Armonia perduta: la lingua napoletana addomesticata a uso e consumo di una spaventata classe agiata, tanto da poter scambiare le parole della cantante che intrattiene gli ospiti con un brano di Patti Smith o Janis Joplin.

Le immagini raccontano, in fondo, il profondo amore di Antonio Capuano per il sottoproletariato della città (colorato, vivo) e un malcelato disprezzo per la sua borghesia (desaturata, morta). Questo, più che un facile schierarsi, fa intuire che il regista sia seriamente provato dal tentativo – e lo si vedeva già nel precedente La guerra di Mario – di raccontare i ricchi della città. Per questo molti dialoghi sono impacciati, tremanti, quando scritti per la Napoli bene e, colpa di un eccesso di controllo da parte dell’autore, enfatizzati quando scritti per “il popolo”. Per non lasciarsi sfuggire nulla di mano il regista sembra non dare fiducia ai suoi (non) attori che vengono doppiati e dunque reinterpretati, sovraccaricati di senso.

Capuano resta uno di quei pochi autori nostrani che si pongono il problema della forma e si scervellano per dargli una soluzione, non rinunciando a porre questioni che nonostante l’enorme mole di libri, film, spettacoli sulla città degli ultimi anni ancora non hanno trovato nessuna risposta. (cyop&kaf)

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