Il Passing Clouds è un club molto amato di East London. Si trova in una traversa di Kingsland Road, una delle strade principali di Dalston. Un tempo quartiere abitato prevalentemente da immigrati, negli ultimi dieci anni l’area è stata interessata da notevoli cambiamenti architettonici, sociali e culturali. L’apertura di due stazioni della Overground nel 2010, parte del piano di potenziamento del trasporto pubblico avviato in vista delle Olimpiadi 2012, ha schiacciato sensibilmente l’acceleratore di un processo già in atto: quello della progressiva “rigenerazione” di Hackney. Il Passing Clouds, in attività dal 2006, è stato motore, testimone e vittima di tutto il processo. Il 17 giugno di quest’anno lo staff del club che si è recato al lavoro ha trovato la porta sbarrata e una nuova serratura: il giorno prima l’edificio era stato venduto in segreto alla compagnia di developer Landhold Capital. Oggi il locale è ancora chiuso.
Il 17 settembre scorso una marcia di protesta ha attraversato le strade del quartiere: Save London’s Dying Culture and Nightlife la parola d’ordine. Verso le cinque del pomeriggio qualche centinaio di persone è già radunato in Hoxton Square: ragazzi e ragazze più o meno giovani, famiglie con bambini e un discreto assortimento di nazionalità ed etnie. I più legati al club hanno accolto l’invito degli organizzatori a vestirsi di rosso per simboleggiare “the creative lifeblood of Hackney”. Nel complesso il corteo è allegro e colorato, e sembra composto di gente uscita per andare a ballare: percussionisti samba, sassofonisti africani, rasta e gli immancabili travestimenti che i londinesi non vedono l’ora di indossare. In testa al corteo un gruppo punk si esibisce senza maglietta sopra un furgoncino scoperto. La marcia fa tappa davanti alla sede del Passing Clouds dove viene tenuto un breve discorso, e le mura appena ridipinte di grigio dai nuovi proprietari si beccano un po’ di scritte spray. Il corteo terminerà a Gillet Square con musica e interventi al microfono di artisti, rappresentanti di associazioni della notte, frequentatori e staff del club.
Non ho mai amato molto il Passing Clouds, e un po’ mi dispiace. Le poche volte che ci sono stato mi sono sempre sentito un po’ fuori posto, come a una specie di festa Erasmus o in una piazza universitaria italiana. Ma quando ti rendi conto che qualcosa di simile a una piazza universitaria italiana a Londra non esiste, inizi anche a capire l’importanza che questo piccolo club può avere nella geografia affettiva di Dalston e dell’intera città. Il Passing Clouds era un club genuinamente multietnico, in una città il cui tanto decantato multiculturalismo si traduce spesso in tante culture diverse che vivono una di fianco all’altra ignorandosi completamente. Sul piccolo palco hanno suonato artisti affermati e praticamente tutte le band emergenti di Londra e dintorni. La programmazione ampia e variegata proponeva musiche dall’Africa e dal Sudamerica, elettronica, hip hop, jazz, reggae, jungle e appassionate jam session, oltre a un’ampia scelta di corsi e attività a prezzi sempre abbordabili. Tuttavia, pur arrivandoci razionalmente, non sono mai riuscito a superare quel vago senso di disagio che trascorrere una serata al Passing Clouds mi procurava. Qualcosa di simile all’acquistare una compilation di world music in edicola.
Arrivati a Gillet Square la folla si dispone intorno a una piccola pedana di legno che farà da palchetto per gli interventi. L’amplificazione è decisamente troppo piccola per la notevole folla che si è radunata, e gli interventi si seguono a fatica. Tuttavia l’argomentazione generale è perfettamente chiara. Il Passing Clouds è linfa vitale per il quartiere e un nodo importante sulla mappa culturale della città, e pertanto chiede tutela da parte delle istituzioni. Le sue rivendicazioni fanno rete con quelle delle altre music venues e delle persone che in questi posti ci lavorano e ci si riconoscono, contribuendo a tenere salda l’identità di Londra come un instancabile centro di produzione di cultura e comunità. Culture e community sono le parole che ricorrono maggiormente negli interventi; insieme a music e love sono anche le più gettonate sui cartelli scritti a vernice che la gente tiene tra le mani. Un attivista dei movimenti ecologisti radicali afferma che la lotta per il Passing Clouds è la stessa lotta che in passato aveva reclamato gli squat e poi i community centre, e riceve una piccola ovazione. C’è qualcosa di strano nell’aria, ma non riesco a capire cosa. Una specie di frequenza dissonante mi ha seguito da Hoxton Square fino a qui; risuona negli slogan, riverbera tra le percussioni africane e le chitarre del gruppo punk.
Nel suo libro Capitalism Realism, Mark Fisher descrive l’essenza del tardo capitalismo non come un mutamento nei processi di produzione, ma piuttosto nei termini di una strana atmosfera che pervade ogni aspetto della vita sociale e culturale. In questa accezione il capitalismo si afferma non tanto come realtà ma come realismo, ovvero come orizzonte stesso del possibile. Alla lotta per la sussunzione delle spinte contrarie si sostituisce la loro preincorporazione: capitalismo e anticapitalismo sono ormai entrambi situati al di qua della linea, completamente assorbiti negli stessi meccanismi. La linea stessa diviene evanescente e scompare, come un sogno al mattino o un ricordo d’infanzia, e rimaniamo a domandarci se c’è stato mai un tempo in cui dall’altra parte c’era effettivamente qualcosa; affetti, speranze, possibilità. È questa densa atmosfera che oggi mi sembra di respirare a pieni polmoni. Dagli squat al Passing Clouds quello che si è perso non è solo una serie di battaglie e di spazi fisici, ma la possibilità stessa di immaginare un’alternativa. Comunità, cultura e amore sono concetti assolutamente ambivalenti se non facciamo lo sforzo di ancorarli da qualche parte. E se l’altro lato al momento ci è precluso, bisogna fare almeno lo sforzo di posizionarci con i nostri corpi sulla linea stessa, di modo che questa possa guadagnare consistenza e tornare a essere una zona dove forze antitetiche si scontrano, piuttosto che un’inerte, morbida recinzione.
Mentre mi allontano da Gillet Square sul palchetto è la volta di Eleanor, fondatrice e proprietaria del Passing Cloud fin dal primo giorno. Dice che la strategia che hanno deciso di adottare è quella di tentare di far nominare il club come asset of community value, sito di interesse per la comunità. In questo modo la vendita alla Landhold Capital verrebbe bloccata, e la direzione del Passing Clouds avrebbe la possibilità di muovere per prima un’offerta di acquisto ai proprietari dell’edificio mettendo sul piatto, assieme ai soldi, anche il valore culturale e sociale della propria impresa. Mentre mi allontano da Gillet Square non posso che sperare sinceramente che il Passing Clouds riesca a tornare in attività. Anche se da sole non rappresentano una soluzione, musica e cultura sembrano essere gli ultimi avamposti da salvaguardare in una battaglia che ha assunto ormai le sembianze drammatiche dello scontro finale. Dopotutto l’alternativa è l’ennesimo blocco di appartamenti di lusso; e nessuno in questa città sembra averne davvero bisogno. (brian d’aquino)
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