«Io so’ er Presidente, so proprietario de tutto l’isolato, la gente viene qui a trovare me, vabbè pure pe’ ritrovasse fra de loro, va’! Qui se gioca a carte, semo tutti pensionati, se sta tranquilli, a meno che quarcuno nun se ‘nciocca troppo. Ma mica come la gente che viene da ‘ste parti solo pe’ fa’ festa… è tutto cambiato da quando c’è Luxuria, se li è portati tutti appresso!».
La sedia, come un trono sul marciapiede, lo contiene a stento. Occhiali scuri incastonati nel viso, piedi stretti in scarpe da tennis grigio-bianche e aria trionfante da animale di periferia. Il Presidente indica i binari del tram quando traccia i vecchi confini di via Prenestina, e poi di nuovo questa taverna senza insegna, che affaccia sulla strada. «Questa è la prima osteria de Roma, sta qua dal 1922… Per tanti anni qui si è venduto solo vino. Quando arrivarono gli americani, si cominciò a fare da mangiare. Io lavoravo in cucina, poi ho iniziato a girare il mondo, ho visto tutto, dalle Fiji a Honolulu, avevo una miniera di zaffiri in Australia e oggi ho tre gioiellerie e te dico, preferisco stare nelle gioiellerie. Quindi l’attività l’ho ceduta, ora c’è Daniele, bisogna parla’ co’ lui…».
Domenica, ore 12. La rampa della tangenziale espelle metallo rovente su via Prenestina, dagli abbozzi di pista ciclabile qualche bicicletta vacilla per lo spostamento d’aria. La zona pedonale è ancora mortificata dai postumi del sabato, mentre questo scorcio di strada si anima lentamente. La fresca ristrutturazione del locale è un evidente tentativo di smarcarsi dall’immagine di baracca. Le foto appese ai muri e quelle che Daniele tira fuori dal cassetto confermano. «Abbiamo cambiato quasi tutto, ma i vecchi erogatori, quelli funzionano ancora bene. Questo posto era uno dei ritrovi del borghetto. Il “borghetto Prenestino” era una distesa di baracche a perdita d’occhio che partiva da Casal Bertone e Villa Gordiani per risalire su via Prenestina. ‘Na vera e propria bidonville! Era la casa di tutti i lavoratori del sud, immigrati a Roma per costruire la bella capitale. Sfuggivano alla miseria per ritrovarsi quasi peggio. Era lo scandalo de Roma, senza fognature, senza acqua, né luce, tutto galleggiava nella marana. Via della Maranella, Acqua Bullicante erano ‘na palude…».
Farsi strada nella taverna è una questione di tempo e di sguardi. Nella veranda almeno tre uomini siedono in completa solitudine, davanti a un mezzo litro di bianco dei castelli (privi di qualunque dispositivo tecnologico, liberi di essere tristi). La traiettoria dello sguardo è ripetitiva. Il fuori, il dentro, il tavolo, il pavimento, il mezzo litro. E di nuovo. Nel sottoscala invece si beve a gruppetti. Si suppone che ognuno sia sempre al solito posto. Si presentano citando i vecchi mestieri, come prima affermazione di identità.
«Eccolo, er Giorgio Armani der Prenestino. Te sei alzato adesso di’ la verità…».
«Lui invece era marinaro… ora è marinaro d’acqua dolce, anzi solo marinaro de marana…».
«L’amico qui ‘o chiamamo Treccani! Mica come noi ‘gnorantoni… parla, parla te che sai tutto!».
«La mia famiglia è umbra, io in Umbria ci sono tornato, ho rimesso a posto la vecchia casa di famiglia. La gente è emigrata qui a Roma, ma diciamocelo, se viveva peggio che nei paesi da dove veniva. Negli anni Sessanta, le baracche arrivavano fin qui davanti. San Lorenzo e questa zona erano popolari, dopo l’esodo ci siamo sentiti accolti. Quell’accoglienza che forse oggi non c’è. Noi semo vecchi… le altre culture non semo in grado di capille. Negli anni Sessanta qui si vedeva l’allegria, si socializzava e si trovava lavoro. Questi posti erano anche un collocamento. Si veniva qua e si recuperava una giornata. Questa è l’ultima spiaggia, dopo questo, più nulla!».
Di cosa parlano? Del Pigneto come appare oggi, il village disegnato addosso alla social-borghesia creativa. La parola “gentrificazione” non ricorre in nessuna delle storie raccolte, anche se da un pezzo rischiano di essere inghiottite dalle sue sabbie mobili; abitudini ed esigenze dei nuovi abitanti stanno già omologando il paesaggio, creando percorsi e scansione del tempo obbligati: programmazioni culturali, prodotti alimentari, tipi di locali accordati alla nuova popolazione contribuiscono a tagliare fuori gli abitanti a basso reddito. Appena pronta la scenografia, è prevista la totale uscita di scena.
«E che ce porti, mezzo litro? E a lui?».
(Mezzo litro di vino: 1,50 €)
«No, sto già un pezzo avanti, lascia perde».
«Me devo ripijà da una cena, me servono n’ovetto e du’ coppiette che m’aggiusteno lo stomaco. Io sono sarto, in via Muzio Attendolo, questo è l’aperitivo nostro. Qui ci vieni per ritrovarti con gli amici, sennò te perdi e non c’hai più nessuno. Questa è l’ultima spiaggia, dopo questo posto non c’è più niente…».
(Un uovo sodo: 0,70 €, due coppiette: 1 €)
S’è fatto tardi. C’è chi torna alla famiglia residua. Il cuoco si passa in fronte uno straccio bianco e si lascia scivolare su una panca. «Allora, che se ‘nventamo oggi?». Insieme a chi rimane, si decide il pranzo. Tagliolini burro e alici.
I numerosi “vini e oli” del quartiere sono forse il luogo dove cercare punti di contatto tra vecchio e nuovo Pigneto? Mauro non è da molto nel quartiere, nonostante l’arredo rustico del locale. E non vende vino da sempre, il suo mestiere era il facchino ai Mercati Generali di via Ostiense. Il lavoro se l’è inventato, innestandosi nell’humus già predisposto. «Io lo capisco, i vecchi qui non ci entrano quasi più, se sentono a disagio. Poi coi ragazzi s’innervosiscono, allora prendono il vino da portare a casa per pranzo e vanno via… Se non sei presente il tuo locale è come se fosse anonimo, senza faccia, invece ce devi mette la faccia, te devi sporca’ le mani, e se qualcuno non se comporta come dici te, devi avere polso e interveni’. Secondo me il grande problema dei locali all’isola pedonale è che so’ tutti uguali, anonimi, così ognuno se sente libero de fa’ come glie pare, e te credo che poi so’ tutti tossici e alcolizzati…».
Il Pigneto Village oggi è un sogno infranto dal dilagare dello spaccio. Un’offerta spropositata che ha gonfiato la domanda. Il quartiere perde gradualmente il suo fascino tra la rabbia disperata degli abitanti, storditi dalle continue risse, esasperati. Si alternano periodiche invocazioni alle forze dell’ordine e alle istituzioni, ricerca di un’autorità che difficilmente sarà all’altezza del compito. Lo spaccio genera degrado che genera un crollo del mercato immobiliare che genera un pasto ghiotto per i grandi speculatori. Zoomando fuori dal quartiere, da Roma, la storia si ripete, arriva a comprendere altre metropoli, Torino, Milano e poi Berlino, Stoccolma, Amburgo. I “Welcome refugees, tourists piss off”, “We don’t want no yuppy flats, we are happy with our rats”, di Kreuzberg o i “Gamonal no quiere bulevar” di questi giorni a Burgos, per impedire uno sciagurato processo di riqualificazione, sono urla che testimoniano di una consapevolezza giunta prima che il processo risultasse inarrestabile. Ad altre latitudini c’è chi si alza barricate contro chi trova milioni di euro per trasformare quartieri popolari in nuovi centri votati al consumo. Consapevolezza derivante da una lettura attenta, avvenuta un passo prima che il miglioramento delle condizioni di vita dei nuovi residenti riesca a togliere potenza alla risposta di una collettività. Un passo prima dello sradicamento.
Tommaso e il suo locale si trovano in via circonvallazione Casilina, all’altezza del ponte che sovrasta la ferrovia dei treni FR1. Gli alberi che costeggiavano i binari non ci sono più. Mossa iniziale di un piano di tombamento della linea ferroviaria che si accorda per incuria di progettazione a quello dei lavori per la Metro C, la più costosa del mondo, ancora non terminata. Il “vini e oli” di Tommaso non tira tardi la sera, risse non se ne registrano, l’aria è tutto sommato quieta. Di mattina, qui intorno, però, non c’è un’anima. «La vecchia gente del quartiere, gli artigiani… non li vedi, fanno una vita nascosta, non si trovano più. Tanti sono stati costretti a spazi sempre più piccoli. Il lunedì sembra di essere sopravvissuti a una guerra… Io non lo capisco perché questi ragazzi di oggi vogliono vivere al di sopra delle loro possibilità. Molti hanno ancora il cuscinetto delle famiglie e non conoscono il valore del risparmio. Il trauma forte lo vivono all’estero, dove sono disposti a fare lavori umili perché nessuno li vede».
La rincorsa allo status è impegnativa. Richiede impegno e dedizione. La senti per le strade, la ricerca di un’aria più internazionale, così vicina alle ragioni del marketing, della comunicazione social. L’elettrocardiogramma della memoria diventa piatto, schiacciato su una linea senza storia. Il passato può andar bene solo se epurato della sua complessità, buono a fare stile, estetica, ad alimentare i consumi del presente, e rendere tutti vittime di un nostalgico filtro vintage. Forse è lecito pensare che accada proprio come quando sradichi alberi decennali da un terreno. Alla prima tempesta il sistema non è più in grado di garantire che non franerà. (giusi palomba)
Leave a Reply