È uscito all’inizio di questo mese il terzo numero di Le Petit Néant, rivista di immagini curata da Miguel Angel Valdivia e Giulia Garbin. La rivista verrà presentata a Bologna domani, venerdì 24 marzo (libreria Modo Infoshop, via Mascarella 24/b; ore 19,00) e successivamente a Napoli (il 4 maggio al Riot Studio di via San Biagio dei librai, 39; ore 19,00).
Le Petit Néant è distribuito a Napoli in alcune librerie del centro storico (Dante&Descartes, Librido, Ubik), oppure è acquistabile online.
Lasciarsi trasportare dalle immagini – accostate caoticamente solo in apparenza – può dar vita a suggestioni e visioni come quelle messe nero su bianco subito dopo gli asterischi.
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Raccontano alcuni che all’inizio era un’onda di luce assordante e incolore. Il primo giorno la luce ha incontrato il nero oscuro, ne ha forato il margine in alto a sinistra e si è espansa in coni, riverberi e corpuscoli vaporosi. Altri narrano che in origine tutto era oscura materia compatta senza forma e aggiungono che la luce è solo un incidente temporale, ed effimero. Nonostante le divergenze, vi è concordia in questo: che ora esiste una penombra diffusa dove appaiono la linea di un tetto, un cane riverso di schiena, oppure un ragno molto pericoloso.
Forse il mondo è una sottilissima rete da pesca che discende floscia in anse, in volute panneggiate. L’occhio scruta in cerca di un biancore lucente che segnali una rottura: l’anello che non tiene. Ma un movimento a sinistra – una folata? – soffia via il margine estremo della rete e disvela: dietro non vi è che buio vuoto.
«Ma no – dice una voce accanto – non esprimerti così. Non devi pensare, ma solo rievocare i resti dei ricordi e delle storie. A quel tempo vivevo in una campagna dove era sempre sera. Fra le erbacce selvagge vedevo gli steccati dei recinti e più lontano le luci di stanze dove abitano i solitari. Era la terra dei tralicci, incombenti colonne di metallo nere e sottili contro il cielo in via di spegnimento. Nella mia casa di legno, a volte, mi chiedevo: e se fosse l’alba?».
Bisogna liberarsi dai ricordi per studiare la natura delle cose. Un uomo si concentra stringendo fra i denti il labbro inferiore, la ruga sulla fronte è il segno antico di preoccupazioni che ha abbandonato. Rimane così immobile che il panno della sua veste pare scolpito nel marmo. Di fronte si aprono buchi di vuoto nero che risucchiano la luce. La stanza è un modesto monolocale d’una mansarda, uno di quei luoghi precari dove non vale la pena abitare a lungo. Spoglia e fredda, la mansarda ospita un termosifone elettrico sotto l’unica finestra, una scatola dimenticata, una misera scrivania smangiata dal tempo, un materasso gettato nell’angolo. Quando la luce elettrica si spegne, un vago bagliore penetra dalla finestra e sfiora la scatola, il termosifone e le prese di corrente. Intorno è disceso il buio.
«Ricordo che a quel tempo frequentavo il ventre della stazione per ascoltare la musica diffusa dagli altoparlanti vicino alla rotaia. Salii sul treno di passaggio e incontrai finalmente la donna bionda. L’avevo già vista da qualche parte? Forse distesa su un pavimento rosso? Voglio dirti che grazie ai ricordi io posso vedere il biondo dei capelli e il rosso della copertina del libro su cui poggiava la mano. Mi figuro la nostra gita alla città fluviale dove l’acqua melmosa aveva il colore delle chiome degli alberi. Stranamente lei gettò il suo libro rosso in acqua; lo osservai galleggiare via, lontano. Ero inquieto perché in quella città i ciocchi di legno sembravano bicchieri di succo di frutta con cannuccia».
Le frasche nella foresta sono oscure, ma non impenetrabili. La luce filtrante della luna consente di vedere il volto bambinesco di un uomo, le guance paffute e il suo sguardo annoiato. Stringe in mano un coltello affilato: si tenga sott’occhio la lama, triangolo di luce nella notte. Nel folto della macchia si trova una casa con veranda, un uomo saluta un vagabondo sul patio e si chiude la porta alle spalle. Il viandante sembra partito, ma lo sguardo attento nota una figura che ancora s’aggira nei dintorni, furtiva. Nel mondo in penombra devono essere distinte le figure, le forme discrete. Necessario adottare la visione analitica dello scienziato che osserva l’insetto sotto lente, fissare freddamente le forme apparenti in penombra.
«Nel benessere e nel malessere segui le storie e smetti di pensare alle tracce da interpretare. A quel tempo eravamo sempre insieme in uno sfondo di rosa acceso. Io potevo osservarla camminando sulle mani a testa in giù. Oppure ci abbracciavamo felici nella stanza di rosa acceso e intorno vorticavano i volti degli uomini passati, come ad ammonirci che anche loro erano stati, per poco, felici. Soltanto anni dopo il nunzio del cielo venne ad annunciare la concezione. Quando ci visitò, il mio volto era segnato dal lavoro che sfianca, sfatto in una stanchezza farmacologica. L’angelo riuscì a entrare perché avevo aperto la finestra: volevo che il fumo della mia ultima sigaretta si disperdesse».
Per comprendere il tessuto dell’universo è necessario concentrarsi sulla parete di fronte e concepirla come una sequenza di linee sbilenche in successione alternata. Le linee scompaiono dove la penombra sfuma nella materia oscura. Si fissino allora i luoghi più cupi per individuare la forma nonostante il nero. Le linee si fanno sempre più fitte, eppure è possibile intravedere ancora una silhouette, forse il messaggio ultimo da scovare.
L’uomo in concentrazione, come un burattino dal naso lungo, siede e sfoglia un libro di disegni, ma le pagine s’anneriscono. Si alza e raggiunge la macchina che sviluppa le figure, raccoglie l’immagine di una casa con tetto nero e un albero vicino. Forse la casa in campagna dei ricordi, la casa evocata dalla voce accanto? La sera, se possibile, si fa ancora più sera: il tempo concesso per decifrare le forme in penombra sta per scadere. Bussano alla porta gli scheletri sul carro del cavallo macilento e bendato.
«Se finisci i ricordi, ecco ti ritrovi in questa sera ancora più sera dove gli uomini senza occhi escono in strada per portare sulle spalle la cassa di legno nero. Quando s’appressa la fine mi appare davanti solo l’incubo del lombrico che scava sotto terra. Io vorrei dire: “Se vedo il lombrico sotto terra, allora anche laggiù ci raggiunge un fioco bagliore di luce”. Ma gli uomini con i cappelloni – hanno i ragni disegnati sui cappelloni – mi fissano e mi dicono no, no. Anche i pipistrelli dicono no, no, con scuotimento di capo. Per poco rimane accesa la debole fiamma delle candele sul tavolo».
Per l’uomo seduto in concentrazione anche la fine del mondo non è poi evento sì grave. Quando la vita del mondo si sarà spenta, rimarrà una cucina silenziosissima in una casa borghese. Alle pareti resteranno sospesi il disegno di un giaguaro, la foto d’una costa irlandese, una mappa zenitale, diplomi. Sul tavolo riposeranno dimenticate le buste Tesco della spesa dell’ultimo uomo. Dopo la spesa, l’uomo è stato risucchiato nel grande vortice abissale senza luce.
Poi, lentamente, anche gli oggetti scompariranno nel nulla, o “grande niente”. L’ultima cosa ad apparire ancora nella penombra sarà una lunga ferrovia infinita e sospesa sull’universo morente. Accanto alle rotaie s’aduneranno in grumi gli ultimi brandelli di ragnatele, alcuni alberi alieni, le tracce di sporco in sparizione imminente.
Secondo alcuni l’universo termina nel vuoto nero di materia oscura, e basta così. Secondo altri bisogna tenere da conto quel piccolo foro di luce nel margine destro, sintomo del biancore originario – o onda di luce assordante – che tutto avvolge come se fosse la copertina d’un libro. Nonostante le divergenze, vi è concordia in questo: che il mondo in penombra dove appaiono le figure – loro lo chiamano “l’interregno del significato” – sia soltanto un “piccolo niente”. (francesco migliaccio)
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