In comunità – Malattia mentale e cura (Edizioni dell’Asino, 2021) di Giorgio Villa, antropologo e psichiatra, responsabile fino al 2017 della Comunità terapeutica di via Montesanto a Roma, è il racconto diretto e onesto di una esperienza ventennale di cura e riabilitazione delle persone con sofferenza psichica. In un tempo in cui il discorso della psichiatria è ridotto molto spesso a tabelle di costo e numero di posti in strutture residenziali, Villa offre a un pubblico ampio il bilancio di una prassi operativa immaginata e pensata per evitare i rischi di una prolungata istituzionalizzazione e per costruire percorsi di autonomia e inclusione per le persone che l’attraversano. Un libro vivo in cui l’esperienza di un lavoro di equipe non è soffocata dall’egocentrismo narrativo dello psichiatra responsabile del centro e in cui si ha l’onestà di pronunciare parole come “fallimento” o “morte” perché si racconta di un percorso di cura in tutti i suoi aspetti complessi e spinosi senza discorsi autocelebrativi. Così il libro, attraverso il racconto delle vite dei pazienti, diventa insieme una sorta di diario di bordo o di manuale operativo che riepiloga gli elementi essenziali affinché l’intervento comunitario si configuri “come un segmento complesso dell’intervento terapeutico riabilitativo” e, in quanto tale, preveda “la capacità dello staff complessivo della Comunità di seguire le fasi di uscita anche per molti mesi studiando e valutando le concrete forme del vivere e dell’abitare”.
Prima e fondamentale regola, il ricovero in comunità non può superare i due anni, il tempo necessario per valutare l’intervento “nell’arco di almeno otto stagioni”. Poi via via i contratti personalizzati, il funzionamento gruppale, la valutazione diagnostica, l’innesto riabilitativo (inteso come recupero di un’abilità fisica, operativa o emotiva, scelta dall’utente e con lui valutata e stimolata), la previsione di una fase di semi-residenzialità che accompagni il ritorno a casa, il gruppo multifamiliare che accompagna la capacità della Comunità di raccontare la sua storia, la costituzione di una funzione di staff che preveda visite domiciliari, l’istituzione della figura dell’operatore di riferimento, infine una forte tensione alla scommessa culturale.
Questo insieme di strumenti, elaborati sulla scorta dell’analisi e di altre esperienze come quelle di Trieste o di Reggio Emilia, è via via perfezionato e adattato alle esigenze dei singoli e alla esperienza operativa, è una “cassetta degli attrezzi” che costituisce la traccia di fondo dell’intervento comunitario ma che non si trasforma mai in un rigido schema protocollare. Perché non accada che la comunità diventi manicomio e che l’operatore diventi custode, è necessaria una tensione culturale di fondo – che attraversa tutto il libro –, l’assunto base che un luogo protetto non è un posto in cui “nascondere” un sofferente ma un porto di transito in cui recuperare gli strumenti che consentono al paziente di ritrovare la sua autonomia al di fuori nel mondo.
L’attenzione va dunque posta su tutte le componenti di questo processo di inclusione, lo psichiatra certo, ma insieme ai pazienti, ai familiari, agli operatori, agli psicologi, ai volontari, ai tirocinanti, perché la costruzione di legami di comunità e di luoghi protetti che non siano prigione è un percorso partecipativo che funziona solo se condiviso da e con tutti gli attori. Come scrive Villa: “In fondo ciò che differenzia una Comunità terapeutica da una di tipo carcerario è proprio questa dimensione nella quale il gruppo complessivo, rappresentato dallo staff e dalle équipe invianti, si assume il compito di comprendere in modo nuovo le esigenze dell’ospite e di pensare, prevedere, contenere, rimandare tutti i possibili frammenti terapeutici che possano dare spazio a un percorso di cura e di vita diverso dopo i molti fallimenti nei quali ci si è imbattuti”.
Così nel leggere le storie di Carlo, Giulio, Leandro, Chiara, Michele, Riccardo, Vincenzo e degli altri, una piccola parte delle centosessanta persone che negli anni sono state prese in carico, si comprende quante energie ci vogliano per sottrarre queste vite all’abbandono o alla reclusione e quanto basti poco perché intervenga un evento che costringe a ricominciare da capo. La cura del paziente psichiatrico non è solo quella “terapeutica” ma è un “prendersi cura” della persona nel suo insieme, negli aspetti medici e “riabilitativi”, che non procede per linearità ma per incespichi e percorsi tortuosi, con fallimenti da cui non sempre si torna indietro. Eppure, bisogna provare. Villa restituisce bene questo sforzo con un racconto colto, senza sbavature e retoriche, e questo rende il libro utile sia agli operatori della materia che vogliano confrontarsi con le prassi, sia per chi voglia avere le idee più chiare su un tema più attuale che mai. Perché oggi la tendenza in atto è quella di un fiorire e moltiplicarsi di strutture private residenziali di tipo sanitario, con capienze anche di quaranta persone, che nascono al solo scopo di internare, custodire, nascondere, e di trarre il massimo profitto dalla prolungata presenza di pazienti cronici.
“Un paziente non dimentica mai una promessa”, ricorda Villa. Allora è bene più che mai distinguere tra la paternale pacca sulla spalla dello psichiatra di memoria manicomiale che alla domanda dell’internato: “Dottore, quando uscirò?”, rispondeva: “Presto, presto”, con consapevole menzogna, e la promessa di cura che nasce dal riconoscere il volto dell’altro come persona e dal rifiuto di considerare la sofferenza mentale come una mera somma di sintomi. Perché non si dà salute mentale senza inclusione, libertà e autonomia. (dario stefano dell’aquila)
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