È di oltre settecento, tra morti e dispersi, il bilancio provvisorio del terremoto che il 17 aprile scorso ha colpito l’Ecuador. Tra i circa sedicimila feriti, alcuni sono in condizioni ancora molto gravi. L’epicentro è stato registrato sulla costa, 170 chilometri a nordest della capitale Quito. Le vittime sono concentrate nelle città di Manta, Portoviejo e Guayaquil. Dopo la prima scossa, di magnitudo 7,8 gradi della scala Richter, ne sono state segnalate altre centinaia. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza in sei province: Esmeraldas, Manabi, Santa Elena, Guayas, Santo Domingo e Los Rios. Mancano acqua, cibo e beni di prima necessità.
Dopo tre ore di attesa la polizia apre la strada, monto sul mio vecchio 4×4 e seguo il cammino; la strada però è bloccata, nessuno l’ha sgomberata, c’è una fila lunga dieci chilometri e sono già le quattro di pomeriggio; mi fermo ad analizzare la situazione: sarebbe stupido insistere per arrivare a Pedernales intorno alle sei, dovrei mettermi a fotografare a casaccio, come se avessi in mano una mitragliatrice. Sarebbe una mancanza di rispetto per le persone; voglio vedere quello che sta succedendo, parlare con la gente, magari chiedere l’autorizzazione prima di scattare una foto. Decido di tornare a El Carmen per stabilire una retroguardia, trovare un posto dove dormire e dove lasciare il materiale e le provviste per poi accedere alla “zona zero” con meno fretta.
Mercoledì mattina piove. La notte precedente mi avevano avvertito che a Pedernales si respira la morte, mi avevano detto di comprare una mascherina per mitigare in qualche modo l’odore. Lungo la strada cerco case crollate ma non ce ne sono. Come è possibile, se i notiziari dicevano che la devastazione era così estesa? Tutte le case sono di legno e bambù, mentre mi avvicino a Pedernales vedo gruppi di senzatetto che, con i primi raggi di sole, cominciano la loro giornata. Dopo una curva, all’improvviso, mi trovo davanti un edificio di tre piani completamente distrutto e, subito dopo, la città è di fronte a me. La devastazione è totale, quasi tutto è stato abbattuto dal sisma.
Un aroma lievemente mortifero nell’aria, che aumenta man mano che mi addentro in città. Sono appena le sei del mattino, immaginare l’odore quando il sole picchierà più forte mi provoca un brivido. Incontro un gruppo di senzatetto che si sono accampati di fronte alle loro case distrutte. Alcuni preparano la colazione, altri dormono ancora, dei bambini giocano e ridono, una famiglia raccoglie il poco che è riuscita a riscattare dal crollo. Dicono che andranno a Santo Domingo, chiedo se hanno familiari o amici là, mi rispondono di no. Sanno solo che non vogliono restare a Pedernales.
Tiro fuori, con pudore, la macchina fotografica, chiedo se posso scattare, mi rispondono di sì, ma non faccio niente, continuo a conversare, chiedo se sono arrivati gli aiuti. Un uomo mi dice di no, solo della gente che gli ha lasciato un po’ d’acqua, ma loro hanno bisogno di medicine perché alcuni hanno preso dei colpi molto forti. Chiedo se ci sono morti, mi dicono che per fortuna qui nessuno. Un altro mi racconta come è riuscito a scappare prima che il tetto della sua casa gli venisse addosso.
Non ho ancora scattato una foto. Un bambino sta giocando su un divano in mezzo ai detriti di quella che era la sua casa. Mi faccio coraggio e chiedo alla madre se posso fotografarlo, mi risponde con un sorriso e con un “certo”. Cerco l’inquadratura e scatto una, due, tre volte; il bambino si alza e se ne va infastidito. Abbasso la camera e mi scuso con la madre, lei mi dice di non preoccuparmi, è un po’ timido, dice. Qualcuno intorno mi guarda e ride. Sì, ridono. Come è possibile che in mezzo a tanta devastazione questa gente sia capace di ridere di gusto? Mi sento meno a disagio. Continuo a fotografare, ormai senza sensi di colpa, e tra una foto e l’altra mi raccontano la loro storia.
La città si risveglia. Perché usano scavatrici pesanti quando ancora potrebbe trovarsi gente intrappolata tra le macerie? Le scavatrici fanno rumore e buttano a terra alcune edificazioni. Continuo a camminare e la distruzione si fa più evidente, ma questo è già stato registrato, non voglio fotografare il disastro. Voglio gente viva, non morti. Il caldo aumenta. La polizia blocca il traffico per ripulire la strada. Torno al 4×4 prima di restare in trappola. Cerco la direzione sud, la strada che va da Jama fino a San Vicente e Bahia de Caraquez. Bahía già sopportò un terremoto il 4 agosto del 1998. Nella provincia di Manabi la terra trema. Come siamo arrivati a questo se già avevamo avuto quella esperienza?
Mi lascio dietro l’odore sempre più forte. La Chorrera è vicino a Pedernales, entro aspettandomi desolazione ma quasi tutto è intatto. Il terremoto ha colpito forte, ma la gran maggioranza delle case è rimasta in piedi. Solo la statuina del Divino Niño ha una mano rotta, un vecchio edificio disabitato è crollato, un altro ha danni strutturali severi, la terra è spaccata ma le case sono intatte.
La Chorrera è un villaggio di pescatori, le loro case sono a un piano, in gran parte fatte di legno e bambù. Parlo con le persone e mi raccontano quanto è stato terribile: un’onda proveniente dal mare ma sotto la terra, “ci ha innalzato e poi sbattuto a terra con violenza”, dicono. Tutto è molto strano, ma la costante di legno e bambù si va consolidando come la formula antisismica perfetta.
Coaque è un villaggio di contadini, mi affaccio dalla strada e vedo alcune case a terra, torno indietro ed entro nel villaggio. Una ragazza sta seduta su una sedia accanto a una casa completamente distrutta. Mi viene in mente un passaggio del libro Il continente selvaggio di Keith Lowe; questa scena deve essersi ripetuta migliaia di volte dopo la fine della seconda guerra mondiale: lo stesso sguardo, la stessa quiete, la stessa sensazione di non sapere che strada prendere. La ragazza mi racconta che la casa distrutta è la sua, i genitori sono rimasti sotto ma sono stati salvati grazie all’aiuto della comunità. Compare un ragazzo che dice di essere suo fratello e racconta la stessa storia. Coaque ha edifici misti, struttura di cemento però pavimento e pareti di legno e bambù. Le strutture collassate sono ridotte in polvere, i bambini giocano, gridano e mi circondano ridendo. Una macchina da cucire in una casa in piedi, senza pareti, le colonne di cemento piene di crepe; dovranno abbatterla.
Una donna guarda la strada qualche metro più sopra e dice: “Passano senza fermarsi, vengono, guardano, prendono nota e se ne vanno; non ci guardano, non ci parlano, è sempre stato così; prima passavano di corsa verso gli hotel per i turisti. Non ci hanno mai guardato”. Resto in silenzio, so che tornerò.
La strada è nuova, di asfalto, con pezzi accartocciati come se una mano gigante avesse fabbricato una palla e l’avesse lanciata sul paesaggio. Le macchine lavorano per rendere possibile il passaggio, le automobili passano a velocità sostenuta: non si rendono conto che la strada è rotta? Ricordo le parole della donna di Coaque. Il caldo è insopportabile, bevo una bottiglia d’acqua dopo l’altra. È quasi una costante, case di legno e canne di bambù intatte e costruzioni di cemento a terra. Una latrina di cemento e mattoni accanto alla casa di bambù: la casa è lì senza un graffio e la latrina completamente distrutta. Non c’è dubbio, il cemento è una trappola mortale.
Arrivo a Jama e il panorama è lo stesso, desolazione e ancora desolazione. Voglio arrivare a Canoa, non so perché ma quella è la mia meta. Un uomo ha un banco in cui vende latte, la sua mandria di bovini è poco distante. Vende anche mais e angurie. Gli stanno consegnando materassi, casse piene di scatolame e taniche d’acqua. Guardo la sua casa e sta in piedi come la stalla delle sue mucche. Non capisco niente.
Alla fine arrivo a Canoa e mi trovo in un villaggio fatto per turisti, con discoteche e bar, quasi abbandonato. Le scavatrici stanno demolendo tutto, la gente dice che lì intorno si potevano saltare i cadaveri tanti ne erano, che gli alberghi sono collassati con dentro i turisti. Un grande albergo con struttura di legno e bambù è ancora in piedi, nonostante i suoi tre piani. Il resto, se non è ancora venuto giù dovranno abbatterlo; tutto è stato colpito.
Arrivo a San Vicente. Case ed edifici a terra, altri in piedi, nessuna casetta di legno e bambù. È una città: il ponte che collega San Vicente con Bahia de Caraquez è intatto, la struttura ha retto senza problemi. Bahia ha problemi non da poco, vari edifici con danni strutturali che dovranno essere abbattuti, altri sul punto di crollare. Hanno imparato dal terremoto del 1998? Evidentemente no, la gente dimentica in fretta. Mi fermo a conversare, una donna dice che il problema è il modo in cui si costruisce. “Usano la sabbia del mare”, dice. Non posso crederlo, la sabbia contiene il sale che corrode il ferro. Bahia non ha imparato la lezione, e nemmeno Canoa. Quest’ultima, zona di villeggiatura balneare dei giovani ricchi della zona, era una bomba a orologeria. Ci sono responsabili. La domanda è: appariranno mai?
Ho fatto un giro lungo, sono arrivato molto più a sud della mia base, devo tornare indietro, non ho mangiato niente, solo fave salate e acqua. Commetto un grave errore, non proseguo fino a Manta, dove avrei potuto prendere l’autostrada che collega con Portoviejo (il capoluogo della provincia). Stupidamente prendo la strada che collega Bahia con Portoviejo, in pessime condizioni, niente a che vedere con il terremoto però, è sempre stata così da quando la ricordo. Arrivo a Tosagua e decido di fermarmi. Devo riordinare il materiale, voglio mettere qualcosa nello stomaco. Il percorso Tosagua-El Carmen è lungo, noioso e abbastanza colpito dal terremoto, con crolli e tratti danneggiati e altri precipitati nell’abisso. Mi si buca la ruota posteriore, il cambio di pneumatico è un dramma. Riesco a proseguire e arrivo a El Carmen di notte.
Quello che è collassato è un intero modello di sviluppo, un modello estetico: la gente ha lasciato le sue vecchie case di bambù perché le considerava sinonimo di fallimento. Il successo economico esigeva cemento, la gente lo vedeva elegante, un simbolo di status. Ma le case di cemento si trasformano in forni in un clima del genere, devono essere rinfrescate da costosi sistemi di aria condizionata che consumano quantità oscene di energia. Quello che fallisce è un modello di successo.
Guardo la televisione che il padrone del locale tiene accesa, il presidente Rafael Correa annuncia che dovrà prendere misure fiscali per risolvere la crisi causata dal terremoto. Non ha alternative, penso, si è già bruciato il periodo di maggior prosperità nella storia di questo paese in aerei e altri lussi inutili, non ha altre opzioni.
Venerdì sono di nuovo nella zona zero, le scavatrici stanno buttando a terra ogni cosa. La gente se n’è andata. Pedernales è sempre più vuota. A Coaque la donna intelligente mi aveva detto: “I cittadini trasportano al mare le abitudini di città, non si guardano intorno, il mare non gli interessa, vanno a prendere il sole al bordo di una piscina. Non sanno che abbiamo una cascata bellissima, non gli interessa del bosco, non vogliono vedere i nostri cervi di montagna”. Quando resta in silenzio, le chiedo: “Pensi che sarebbe un bene se sapessero della cascata?”. Lei spalanca gli occhi luminosi e dice no.
Se il governo vuole darmi una casa di cemento la rifiuto, dice la donna. Abbiamo il materiale qui intorno, dobbiamo costruire con quello, aggiunge. Penso che magari gli architetti potrebbero dare una mano, facendo piani nei quali la gente possa costruire utilizzando i propri materiali, i propri saperi; non solo ricostruire le case ma proprio la forma di pensare. (diego cifuentes/traduzione di luca rossomando)
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