L’anno scolastico comincia senza “Chance”, la scuola della seconda opportunità. Per la prima volta dopo dodici anni.
“Chance” più volte data per moribonda ora davvero muore, travolta dal moralismo caldoriano che fa di ogni erba un fascio, che si e ci impedisce una verifica pubblica e seria di quello che s’è fatto e di quello che eventualmente s’è sprecato. Per l’ennesima volta un’istituzione si rifiuta di fare una delle cose più importanti che dovrebbe fare: apprendere.
Veramente dovremmo parlare di chances, nel senso che in una dozzina d’anni questo progetto ha assunto mille forme, e non parlo solo delle due macroforme del progetto chance-maestri di strada, lungamente sperimentale, e di chance-regionale che, nell’ultimo anno, ha provato a istituzionalizzare pratiche e metodologie in dodici scuole.
Parlo dei mille arrangiamenti che Chance ha assunto, come un Proteo, in situazioni sempre diverse. È stata questa la sua novità: declinare i suoi saperi a seconda delle situazioni, dei ragazzi e delle ragazze che incontrava, delle condizioni istituzionali, dei saperi dei suoi docenti e dei suoi educatori, dei rapporti con la scuola “normale”, del sostegno o meno dell’opinione pubblica e degli amministratori. Un sapere che è stato “esportato” altrove in Italia e forse fuori. Forse Chance ha vissuto con senso di colpa, o di inferiorità, questa sua caratteristica, di avere un sapere forte che però non si presentava, e meno male, nelle forme della codificazione istituzionale.
Una specie di hybris, di forsennata sfida di poter diventare essa stessa istituzione, ha caratterizzato la sua storia, nell’illusione di un sapere che potesse trasferirsi, come un sistema di strumenti, quasi ovunque. Nell’epoca delle competenze e delle sue vacue retoriche, Chance non ha forse saputo affermare il suo sapere proprio come una competenza – un mix di attitudini, motivazioni, saperi non canonici e saperi formali, capacità relazionali e spinte politiche – che in quanto tale non prevede la ripetizione delle sue performance ma la sua reinterpretazione adattandosi ai contesti.
Ovunque Chance sia andata, attraverso i suoi educatori, e laddove questi sono stati capaci di abbandonare la deriva verso la loro istituzionalizzazione in esperti, è stato un enzima attivatore di risorse, non un ricettario; è stata, soprattutto, un innovatore di organizzazione, riusciva a creare spazi di riflessività e di autoformazione degli adulti, uno spazio organizzativo, rituale e fisico, in cui si allargasse lo spazio interno, psicologico e culturale, degli adulti.
Questa sua caratteristica, che ne faceva sul piano della cultura organizzativa un esperimento di straordinaria modernità, Chance non l’ha mai detta con sufficiente perseveranza; non ha mai detto con forza che senza innovazione organizzativa, prima ancora che senza risorse, non si cantano messe. Forse noi tutti ci portavamo troppo dentro il frame del “grande insegnante”, la storia di una solitudine un po’ superomistica e alla lunga improduttiva, per capire che la mente e le emozioni e le organizzazioni si forgiano nell’uso, e nell’abitudine all’uso, di spazi e di strumenti. In questo senso Chance non aveva al centro i ragazzi, ma gli adulti, la formazione del loro gruppo, l’invenzione istituzionale di spazi inediti o della loro resurrezione, come i consigli di classe, a una vita di senso professionale e politico.
Ora Chance è morto e non si riesce neanche a dire viva Chance! I problemi che ha imposto come problemi pubblici, i volti e le voci di chi è stato sempre fuori dagli spazi comunicativi chissà che fine faranno, senza decine di adulti che si erano posti tra loro e la città, rifiutando qualunque logica civilizzatrice e provando a far togliere le mani da occhi, orecchie e bocche delle istituzioni.
Chissà che fine faranno, in una istituzione che riconsegna la strada al suo stigma, che riduce qualunque spazio di innovazione organizzativa mentre inonda le pagine della retorica innovativa, che crea i precari o li usa come una forza conservativa, perché riduce la qualità della scuola al numero dei docenti, perché comunque continua a inserirli nella logica del precario che prega (questa è l’etimologia); che inneggia alle riforme e non è capace, nei suoi mirabolanti progetti, di scrivere un rigo su chi sia l’adolescente oggi, di domandarsi chi cavolo siano quel quaranta per cento di giovani che “falliscono” al primo anno delle superiori.
Il fatto è che la forma partito è morta, il fordismo non sta tanto bene, gli stati nazionali sono in crisi, la famiglia idem e la differenza tra i generi vacilla… ma la scuola, animata dalla pervicacia riproduttiva dei suoi abitanti e dei suoi esperti, è l’unica istituzione che deve sopravvivere e deve anzi avere il primato nella formazione delle nuove generazioni.
Ecco, cara Chance, cosa scriverei in un tuo epitaffio: avevamo capito che la forma-scuola era morta, che altre forme e istituzioni dell’apprendimento erano sorte, ma poi i maestri di strada si sono persi per strada e invece che al biberon si sono dati alla respirazione bocca a bocca.
Sulla tua tomba, dovrebbe fiorire un giuramento: riscoprire l’indignazione, che negli anni, direbbe forse Debord, è diventata una merce, un mattoncino per carriere professionali. Ma un’indignazione che andasse oltre la sua lettura moralistica, che riscoprisse la carica edonistica, il piacere di vivere una vita politica. (salvatore pirozzi)
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