Non è una celebrazione, non è un ricordo, nemmeno un belvedere, è un rimetterla al mondo come lei ha fatto con il mito, partendo da Didone che nel suo film del 1986 (Didone non è morta) resuscita dalla Solfatara per incontrare nuovamente Enea e perderlo ancora. Lina non è morta, è l’irriducibile essere donna, con gli occhiali a farfalla e gli abiti mitologici.
Regista, pittrice, poetessa, editrice, musicista, guerriera, agorà, deserto. Lina Mangiacapre (Napoli, 1946 – Napoli, 23 maggio 2002) è stata prima di tutto corpo, prima del concetto, invisibile, presente, sempre collegata, con Partenope, con il mare e con il fuoco. Anche il suo femminismo è mito, contro la colonizzazione che cancella l’identità. Inaddomesticata, nel senso filosofico di Angela Putino, vuol dire per Lina sciogliere i legami per legarsi a sé, con l’esercizio non con la volontà. È sul terreno del mito che si sono incontrate Angela e Lina, napoletane e femministe entrambe, per trovare le radici e poi sradicarsi. A loro la regista Nadia Pizzuti ha dedicato due documentari Amica nostra Angela e Lina Mangiacapre, artista del femminismo.
Il film è un’esplorazione delle metamorfosi di Lina, da Nemesi, dea della giusta vendetta (fondatrice negli anni Settanta del collettivo Le Nemesiache e della cooperativa Le tre Ghinee, oggi associazione culturale) a Faust-Fausta, il suo romanzo transfemminista che oggi si direbbe queer. Il travestimento è lotta politica, come ricorda la protesta Transnemesiache dell’8 marzo 1982 a Castel dell’Ovo, dove Lina e le sue compagne, con abiti maschili e baffi, fecero irruzione interrompendo un convegno sulle donne. Oggi barbe femministe si vedono in Francia con il gruppo d’azione La Barbe, che irrompe nei luoghi di potere dove le donne sono poche (sul sito c’è un kit con le istruzioni tra cui è inclusa la sobriété). Nei luoghi dell’arte a dominio maschile invece a protestare ci sono le Guerrilla Girls con le maschere da gorilla. Il pelo è politico.
Il gioco del travestimento delle Nemesiache a Napoli coinvolge anche le donne negate, psichiatrizzate – prima della legge Basaglia – dell’ospedale psichiatrico il Frullone. Lina e compagne regalano veli, pailettes e strass alle donne ricoverate, le prendono per mano e le portano a fare il bagno alla Gaiola, a Posillipo. Follia come poesia, riprendiamoci il corpo mare è il titolo del filmato girato in super-8 che racconta un frammento di questa storia, una proposta terapeutica, un’ affermazione del diritto alla bellezza degli emarginati, dai sottoproletari ai cosiddetti pazzi, frutto di tre anni di lavorazione.
Il radicamento nel territorio napoletano, con il rifiuto del folclore e delle riduzioni, è per Lina una riappropriazione del contesto archeo-mitologico, denuncia dell’inquinamento ambientale a Bagnoli, impegno per la ricostruzione di una città a misura di donna dopo il terremoto, convinta che “conoscere è già difendere”.
La sua Napoli ricorda Cartagine, entrambe legate alla catastrofe, al fuoco e al mare, fondate da due donne, morte suicide per non essere riuscite a fermare un uomo, Ulisse per Partenope ed Enea per Didone. In questa terra segno della lotta eterna tra natura e cultura, costruzione e distruzione, vita e morte, Lina ha una funzione guerriera, pratica un’arte del taglio, del separare, imitando le amazzoni che attraversano il campo che divide Greci e Troiani. Non è storia ma mito. Non si sa se è lotta o abbraccio.
Non è facile chiamare all’interezza un corpo di frammenti, sono tante le tracce che Lina ha lasciato di sé, molte sono archiviate sul sito a lei dedicato (cinema, teatro, pubblicazioni): spezzoni video, ritagli di articoli, pezzi del periodico Mani/Festa, psicofavole, foto del raduno di Paestum del 1976, dell’occupazione di una palazzina abbandonata a Salvator Rosa l’anno dopo, poesie grafiche e gli infiniti modi in cui rimetteva in discussione gli artefici. E su tutto divampa il fuoco, quello che aveva dentro che, diceva, «lo può spegnere soltanto una lotta». (giusy palumbo)
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