Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana è un libro collettivo uscito nell’aprile 2016 per le edizioni Monitor. Un volume di 536 pagine, con 68 autori che comprende 86 articoli, saggi, storie di vita, grafici e tabelle. Adesso, come annunciato all’uscita del libro, esiste un sito con lo stesso nome. L’obiettivo è di rendere progressivamente disponibile l’intero libro (abbiamo postato i primi quindici articoli), ma soprattutto di aggiornare con il passare del tempo tutti i contributi, a cominciare da quelli basati su dati annuali, per costruire un archivio in movimento delle questioni aperte nell’area metropolitana. Uno strumento di lavoro sempre consultabile per le future ricerche, ma anche uno spazio aperto a nuove analisi e contributi critici.
Vi proponiamo qui uno degli articoli già disponibili on line.
* * *
W l’evasione scolastica
di Salvatore Pirozzi
Vorrei fare un elogio all’evasione scolastica e perorarne la necessità. Non sono uno statistico, qualche volta le uso, le statistiche, ma confesso che non fanno per me. Non conosco i dati precisi a supporto di quello che vorrei dire, ma ho respirato tanto di quell’aria scolastica che penso di poterne parlare con cognizioni, comunque, di causa. Vorrei parlare, pertanto, di aria e non di numeri.
L’innovazione come etichetta
Lo dico subito: l’aria che respiro è quella di un’istituzione morta, che non ce la fa più, che non riesce a entrare in contatto con la necessità di una sua re-istituzionalizzazione. Perché né l’apprendimento, la sua necessità e il diritto a esso, è morto, né lo è la necessità di istituzioni che lo rendano possibile o lo sostengano; è l’istituzione “scuola”, per come è configurata, che defunge. E il paradosso è che comunque nella scuola si producono esperienze importanti, si muovono fino all’eroismo, e al narcisismo, energie umane e professionali. Anticipo quanto proverò a dire: tutto questo movimento (spesso bernsteiniano: il movimento è tutto, il fine è nulla) resta prigioniero del suo paradosso: le azioni hanno successo quando “tradiscono” gli assetti del paradigma scolastico, se ne allontanano, ne sperimentano altri; soltanto che non si può dire o non si può riflettere su questo fenomeno vitale, le cose vanno nominate sempre con la stessa nomenclatura e incorniciate sempre nelle stesse retoriche, e avallate dagli imprimatur degli scriba. Le visioni che animano queste pratiche restano senza parola, immediatamente tradotte nelle frasi fatte di retori, esperti e politici di professione; professionisti, appunto, del “nuovo”.
E in effetti, nel frattempo, la scuola sembra essere una delle istituzioni più aperte, o che più dovrebbero aprirsi, del mondo contemporaneo. Deve aprirsi al lavoro, al territorio, al mercato, al futuro, all’interculturalità, al mondo digitale, ai nuovi saperi, alla parità, alla cittadinanza (qualche volta anche attiva), all’aggiornamento professionale, al nuovo e al buono. All’inclusione, soprattutto. Ho dimenticato molte cose, lo so.
Progetti e finanziamenti, parole anche alate, indagini giornali e parlamenti parlano di scuola e ognuno a modo suo ne perora l’innovazione. Eppure, se vi aggirate nei suoi corridoi, della scuola, se osservate i suoi alunni o chiacchierate con i docenti, se, soprattutto, intervisti te stesso, che per anni e anni hai provato a “innovare”, “aprire”, “includere”, sei costretto a confessarti: la scuola è ancora tra i mondi istituzionali più chiusi. Anche qui un paradosso: sono gli innovatori che contribuiscono a chiudere questo mondo. Un mondo di esperti, che ripetono il mantra dell’innovazione, della modernizzazione, della democratizzazione quasi mai argomentato, ma come un’etichetta che segnali l’appartenenza di tutti allo stesso partito del nuovo, come un segno di riconoscimento che faciliti i discorsi sul vestito dell’imperatore e impedisca di vederne la nudità.
Nelle scuole si è andato costruendo un piccolo esercito di innovatori, un vero e proprio piccolo ceto politico che la governa, quasi una lobby dei Pon. Un ceto che si autoriproduce, affilia e ostracizza rispetto ai suoi equilibri, che è diventato esperto delle parole giuste e delle piattaforme in cui vengono immessi i dati delle varie rendicontazioni attraverso le quali si dimostra non solo la correttezza amministrativa, ma si giustificano, con numeri e dati, i successi delle varie azioni. Come è da molti statistici dimostrato, c’è un effetto perverso in questo meccanismo, quello che viene chiamato “effetto retroattivo”: i dati diventano progressivamente congruenti con le voci e le tassonomie previste per la valutazione, e il gioco è fatto, viene ricostruita una realtà che combaci con le previsioni.
Non è vero che le scuole non hanno risorse, ne sono spesso inondate. Decine di progetti veicolano forme surrettizie di integrazione salariale, straordinari sotto mentite spoglie, posizioni di potere spacciate spesso per eroica dedizione alla causa. Gli orari di lavoro si dilatano, il tempo per riflettere e studiare, sperimentare e confrontarsi svanisce. La verifica della congruenza tra la super-dedizione e i risultati attesi è evitata. L’italica forma del sussidio a pioggia e del manuale Cencelli impera. La stessa virtuosa intenzione di aprire la scuola al territorio, invece che creare nuovi reami, rinforza i vecchi poteri; l’autonomia scolastica diventa anarchia feudale, ogni signore distribuisce benefici in cambio di omaggio, si elargiscono i fondi alle associazioni, che dovrebbero portare nuovo sapere, in cambio di fedeltà e allineamento. La scuola si apre al territorio inglobandolo nel proprio immobilismo; allargarsi, sempre in nome del nuovo, significa annettere. (continua a leggere)
Leave a Reply