
Risalendo verso Roma dall’Irpinia sento una strana sensazione. Sull’osso d’Italia, l’Appennino, sta succedendo qualcosa di nuovo e importante. Si sentiva chiaramente allo Sponz Festival, che Vinicio Capossela ha organizzato a Calitri (Avellino) tra il 22 e il 28 agosto. Durante il concerto conclusivo, sabato 27 notte, per oltre quattro ore si sono alternati sul palco rappresentanti di mondi che ero abituato a concepire come separati. Già la scenografia strideva: c’era il grano, il teschio di bue, le maschere cornute dei mamutones sardi, come a richiamare generici culti estivi agresti mediterranei; ma dietro c’erano anche dei pezzi di luminarie da festa patronale, alcune accese, altre spente, come a dire: non stiamo solo proiettando le nostre fantasie bucoliche di un passato perduto, ma anche riflettendo sulla vita quotidiana dei paesi di oggi, che è tutt’altro che idilliaca.
Capossela alternava con leggerezza esplosioni di danze sfrenate, orgiastiche, lo stadio intero morso della taranta, e poi di colpo una mazurca o un valzer da banda del paese. Giovanna Marini e Gianni Morandi sullo stesso palco, entrambi attesi e amati da uno stadio pieno, che acclamava i versi (finto) dialettali de Lu cacciatore Gaetanu o delle canzoni di Matteo Salvatore, per poi buttarsi senza remore a gridare Fatti mandare dalla mamma. I paesani, alcuni dai balconi, altri in mezzo a noi (il biglietto anziani costava un euro), si sorbivano con qualche perplessità la frenesia dionisiaca del ballo di San Vito; ma subito dopo erano i ragazzini con le cartelle a ballare una polka altrettanto sfrenata, pestandosi i piedi e prendendosi in giro. Pensavo che loro, come me, avevano sempre snobbato questi balli come cose da nonni. Ma lì, questi pezzi sparsi di cultura popolare, popolaresca, pop, si rivelavano parti di un’unità inaspettata. Un senso generale emergeva proprio dallo stridere dei contrasti: c’era un filo conduttore che legava tutti questi frammenti. Capossela lo ha spiegato la sera dopo, nei saluti. «Il vero basso continuo – ha detto – è la terra che calpestiamo».
Durante i giorni del festival abbiamo sentito un poeta ramingo declamare una preghiera degli indiani d’America con le braccia verso il cielo; bande di salentini poco lucidi improvvisare la pizzica in un vicolo; una Colla de Diables catalana che ha incendiato Calitri alta sparando fuoco in mezzo alla folla; e c’era il Teatro delle Albe al castello, la poesia siriana, Mario Brunello che ha suonato Bach nell’Abbazia del Goleto, i racconti di Rocco Scotellaro sulle occupazioni di terre incolte dell’Alta Irpinia. Tutto intorno, le colline sovrastate dalle pale eoliche che invadono l’orizzonte solo per intascarsi gli incentivi; la ferrovia Foggia-Avellino chiusa dalle FS perché non redditizia; l’ombra dei terremoti del 1980 e del 1930, con i vecchietti che sembrano fuori luogo nella geometria delle piazze ricostruite; e l’eco molto più lontana dell’Inquisizione di Benevento, che mosse guerra alla cultura di quelle terre, massacrandone le donne e devastandone la storia, per imporne una nuova col fuoco.
Mi dicono che proprio perché questa gente ha sofferto tanto che sono pronti a cambiare tutto. Dopo il terremoto non gli è rimasto niente, e appena c’è una scintilla di rivoluzione ci si buttano. Non so se è vero. So però che chi ha subito un trasferimento forzato dal proprio paese o quartiere si ritrova non solo una cultura disgregata, senza i riferimenti spaziali che mantenevano insieme le persone, ma spesso anche un risentimento istintivo verso lo stato, che non si esaurisce in pochi anni. Le conseguenze si vedono solo sulla lunga durata: valuteremo tra un decennio cosa ne sarà di Amatrice, o dell’Aquila. In Irpinia c’è sicuramente tantissimo dolore accumulato; gente che aspetta, rassegnazione, rabbia repressa, e la frattura dell’emigrazione, per cui chi rimane ce l’ha con chi parte, e viceversa. Ma anche, forse, un inizio di sublimazione di tutto questo dolore.
“La terra che calpestiamo” è un sostrato culturale composito, fatto di polke, pizziche e storie di streghe, ma soprattutto della certezza condivisa di dover ricostruire un tessuto connettivo, assediato da un’economia neoliberale e da uno stato predatore. Questi assalti hanno creato un vuoto: paesi abbandonati circondati da campagne desolate. Proprio in questo vuoto, però, possono nascere nuovi usi: “Chi ha polvere, spari”, diceva lo slogan del festival. Dietro la follia delirante del concerto e di tutto il festival, c’era una “follia controllata” molto più ampia, fatta di una miriade di esperimenti trasformativi a piccola scala: aziende agricole che recuperano i cereali annientati dalla grande distribuzione, cantastorie che rispolverano meticolosamente antiche espressioni dialettali, studiosi locali che ricostruiscono la storia notturna dei paesi semidistrutti. Lo spiega molto bene anche il manifesto di Trevico, legato al festival “La luna e i calanchi” di Aliano (Matera). È un nuovo immaginario, che abbiamo percepito in tanti; un’onda, che sta partendo dalle profondità dell’osso, e che nelle metropoli ancora non si sente: a Roma abbiamo orti urbani e retorica dei beni comuni, ma la vita quotidiana si basa su altro. Non si sente l’esigenza insopprimibile che c’è lì, di mettere in comune le forze, di ricreare paesi e comunità, per ricrearsi dentro di essi.
Insomma, il famoso genocidio culturale forse non è riuscito del tutto. Da qualche decennio consumismo e cultura di massa hanno sostituito gli dèi di queste terre, come secoli prima la croce e la spada dell’Inquisizione. Ma “non perché abbiamo abbattuto le loro statue e i loro templi, gli dèi sono morti” (Kavafis); si sentivano ben vivi, quando lo stadio evocava Dioniso in quegli scoppi di frenesia impersonale, tra le montagne sperdute, terremotate e saccheggiate. Poi, il giorno che questa ricostruzione collettiva riuscirà a liberarsi anche dalla presenza invadente di santi, angeli e madonne, potremmo dire che questa cosa nuova che sta nascendo inizierà a essere al sicuro. (stefano portelli)
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