Da quando non si levano più in aria, a Torre Annunziata i pugni si tirano.
Un paio di anni fa su un giornale locale comparve la seguente notizia: “Il Killer, come viene soprannominato negli ambienti pugilistici, per quattro volte campione europeo e italiano nella categoria dei pesi mediomassimi, torna sul ring dopo l’uscita dal carcere. Al nuovo debutto, ha mandato k.o. l’albanese Elidon Gaba al primo round. Il pugile oplontino non ha bisogno di presentazioni, tutti lo conoscono, tutti lo amano”.
Protagonista di questo scarno ma eloquente ritratto è Pietro Aurino, un pugile imprevedibile, inventivo, famoso per la ragnatela di colpi da cui indietreggiava solo a compito finito e per il suo sinistro di mancino. Pause, esplosioni feroci, attese, un ritmo da metronomo, il dono di saper scegliere i tempi. Sulla scena squallida e brutale del ring, le luci al neon, il tappeto sporco di sangue, i caschi, i paradenti, la lingua dei pugni è fatta di frazioni di secondo, Pietro Aurino la conosce d’istinto. È stato il primo italiano campione mondiale juniores del 1994, a Istanbul, poi campione europeo, per due volte ha sfidato l’oro mondiale, vinceva o abbandonava il match se per le sue intemperanze riceveva qualche punto di penalizzazione. Era refrattario a qualunque disciplina, non riusciva a concentrarsi. Un pomeriggio, alle finali della categoria novizi che si tenevano a Salerno, scomparve. Lo trovarono dopo alcune ore che saltava sulle molle di un luna park. Disertò anche la finale per il titolo italiano assoluti distratto da una partita di pallone. Inventava scuse sempre nuove e fantasiose per non mettersi a dieta quando doveva rientrare nei limiti di una categoria di peso. Nemmeno Lucio Zurlo, l’allenatore, riuscì a catturarlo. Alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 cadde nella trappola del kazako Vassily Jirov che lo attirò in una rissa, menava colpi alla cieca, una gragnuola di pugni, Aurino si smarrì e perse l’incontro.
Le strade della Provolera hanno avuto la meglio sulla carriera di pugile, poteva andare in America, dicono gli amici, dove tutti i campioni di boxe sono neri e i talenti bianchi sono ricercatissimi, tenere i piedi sulla sedia e il sigaro in bocca sulla spiaggia di Miami, invece ha passato nove anni tra Rebibbia e Regina Coeli per spaccio di stupefacenti, detenzione di armi, concorso esterno in reati di camorra. Nella sua breve e tumultuosa carriera Pietro Aurino ha fatto a tempo a diventare l’idolo di molti giovani pugili, di Irma Testa, per esempio, la prima donna nella storia del pugilato italiano a partecipare alle Olimpiadi, quelle di Rio, nel 2016. A lui si rifà il suo stile sul ring: colpo d’occhio, tempismo, un allungo che le viene dalla sua statura, quasi un metro e ottanta. Farfalla la chiamano per come si muove leggera e con grazia sul ring.
Irma e Pietro vengono dallo stesso quartiere, la Provolera, nato intorno allo Spolettificio, l’antica Polveriera, l’ex fabbrica d’armi di Torre Annunziata, riconvertita dopo la prima guerra mondiale, un vivace quartiere popolare, con molti artigiani e una delle migliori scuole della città. Negli anni Ottanta, quando Pietro Aurino era un bambino e Irma Testa lontana dal venire al mondo, nel quartiere spadroneggiava Valentino Gionta, boss del clan omonimo. Dominava su una cinquantina di famiglie, aveva molti affari, le sigarette, la droga, il racket del pesce e della carne e abitava a Palazzo Fienga, giallo oro il colore delle pareti, d’oro gli infissi alle finestre, d’oro anche i braccioli della poltrona-trono, il consueto gusto da gazze ladre degli uomini del suo stampo.
Irma e Pietro frequentano la stessa palestra, la Boxe Vesuviana, in via Parini, nel cuore della Provolera, vicino alla stazione della Circumvesuviana e agli scavi di Oplonti. Con voce timida e ritratta, il maestro Lucio Zurlo racconta di averla aperta nel 1969, alla nascita del suo primo figlio Biagio. Prima della Boxe Vesuviana, chiamata così per incoraggiare a frequentarla i giovani di tutti i comuni intorno al Vesuvio, c’era stata la Pugilistica Oplonti, uno scantinato in una scuola fatiscente, dove i topi mettevano in fuga i gatti. Zurlo veniva da una famiglia che definisce «abbastanza decente, media borghesia», provò da ragazzo a frequentare la famosa palestra Fulgor di Geppino Silvestri, a Napoli, ma ci voleva un’ora e mezza col treno, per non pagare il biglietto ci si attaccava fuori, i treni della Circumvesuviana andavano piano a quell’epoca, una volta arrivato, lo aspettava una bella camminata fino alla palestra, in via Roma, andata e ritorno, un’odissea quotidiana. Frequentò allora una palestra a Pompei, ma non era altro che un luogo per fare a botte. Decise di seguire il corso per allenatore, con lui c’erano ex pugili famosi, lo prendevano in giro convinti che uno come lui, mai salito sul ring, non avrebbe mai potuto insegnare. Era già sposato con Luisa, di giorno lavorava come infermiere allo Spolettificio, di notte studiava e provava i colpi davanti allo specchio.
Tutti i giorni, da cinquantaquattro anni Lucio Zurlo allena i suoi ragazzi, e oggi anche le ragazze, nell’anonima palazzina a due piani «Chi può ci dà trenta euro al mese e con questi soldi riesco ad accogliere anche chi non ce li ha, il Comune non aiuta, da quest’anno ci ha messo pure la tassa per la spazzatura che prima non arrivava».
Zurlo è tornato nella notte da Parigi. Un’associazione pugilistica lo ha invitato con sette allievi a un week-end di incontri e di festeggiamenti. Hanno proiettato su un grande schermo il documentario che un regista tedesco ha girato sulla Boxe Vesuviana, I guerrieri. «È arrivato il sindaco a salutarci, il sindaco di Parigi che viene a stringere la mano a otto sfessati come noi, quando nella nostra città dobbiamo pregarlo per venire».
Lucio Zurlo è un uomo dal fisico asciutto ed energico per i suoi ottant’anni, ma niente nel suo aspetto, nella voce, nei suoi modi, si direbbero da pugile. La piccola testa circondata da una zazzera di capelli dritti e bianchi, gli occhi nascosti da occhiali quadrati bordati di nero fanno pensare a un cantante folk americano degli anni Settanta, idealista e malinconico. «Venite a vedere», mi dice con aria circospetta, come se mi invitasse a spiare due uccelli su un ramo intenti a un loro dialogo segreto. Dal ballatoio del primo piano, dov’è il piccolo ufficio, si sorveglia al pianoterra la palestra. «Guardate», una coppia di ragazze si allena. «Le vedete? Sono sposate, una ha tre figli, viene la mattina perché è libera, i bambini sono a scuola».
Irma Testa, la prima pugile italiana invitata alle Olimpiadi, aveva dodici anni quando si presentò la prima volta alla Boxe Vesuviana, era bella e irrequieta, vivacissima, impossibile tenerla a scuola. Le suore chiesero a Luisa, la moglie di Lucio Zurlo, di portarla in palestra, chissà che la boxe non avrebbe potuto darle un obiettivo, delle regole. Rifiutava di seguire la dieta, come Aurino, con lei la tattica per il controllo del peso fu più spiccia, Irma mangiava tutti i giorni a casa degli Zurlo. A poco a poco si calmò, riprese a studiare ragioneria da privatista, si appassionò alla boxe, oggi è considerata la pugile under 20 più forte al mondo.
«Lei non mi pare che sa molto di boxe. Non è vero che ci si rompe il naso, che è uno sport pericoloso. Ne ho provati tanti, rugby, scherma, atletica leggera, ho fatto il preparatore atletico di calcio femminile, lì sì che volano i cazzotti, nel pugilato ho trovato uno sport onesto, senza ipocrisie. È rarissimo che i ragazzi che combattono facciano delle scorrettezze, ogni tanto può esserci una pecora nera, ma è un caso isolato. In trasferta c’è spesso una sola stanza, si spogliano insieme, si incontrano sul ring, si danno un sacco di botte, scendono, si rivestono e chi c’ha il panino lo offre all’altro, una volta finito l’incontro sono più amici di prima».
Lucio Zurlo ha sempre accolto tutti, in palestra il merito azzera provenienze e privilegi. «Una volta ci stavano i guappi e i guappi facevano rispettare il quartiere quando uno si trovava in difficoltà. Invece di andare dalla polizia, la gente cercava questi personaggi perché facessero da pacieri, mi ricordo che tanto tempo fa, uno di questi, un mio allievo, per una stupidaggine disse: “Maestro non vi preoccupate, ce la vediamo noi”, e io gli risposi: “Non c’è bisogno, la Boxe Vesuviana non ha bisogno di nessuno aiuto, non è successo niente”. I giovani onesti cercano di andarsene da Torre, la delinquenza minorile in questo paese è traboccante e protetta dai genitori, lo si vede nelle scuole, ci sono padri che vanno a picchiare il maestro perché ha sgridato il figlio».
Le pareti della scala tra il piano terra e il primo piano, dipinte di un allegro verde prato, sono tappezzate di fotografie, ogni gradino un campione, ogni campione un’epoca e una storia che potrebbe esser raccontata a Chicago, a Portorico, a Cuba, in Ucraina, la boxe attinge dal serbatoio senza fine dei ragazzi poveri e sbandati.
Il primo pugile di Torre Annunziata covato da Zurlo fu Ernesto Bergamasco, della Cuparella. «Era senza padre, a dodici anni lavorava ai macelli, l’ho aiutato a prendere la licenza media». Con lui la Boxe Vesuviana e il maestro Zurlo andarono per la prima volta alle Olimpiadi, Monaco 1972, l’anno del massacro degli atleti israeliani da parte del commando palestinese Settembre Nero. Non si accorsero di niente, Bergamasco fu sconfitto dal tailandese Srisook Buntoe.
Nella fotografia campeggia un ragazzo compatto, sul ring, con il viso sanguinante e i guantoni rossi incrociati con il rivale: Gaetano Caso, il primo pugile di Torre Annunziata a diventare campione d’Italia, oggi fotografo cerimonialista dei tempi d’oro di Torre Annunziata, vive da anni a Napoli, ha il negozio di fotografo ai Tribunali, continua a salire sul ring, ma come arbitro. «Venne alla Boxe Vesuviana perché era un po’ chiatto e aveva un idolo, Raffaele Ruggiero, il figlio del portiere del palazzo dove abitava che era un discreto pugile e per far vedere quanto era forte allargava i ferri delle ringhiere delle scale, Gaetano voleva emularlo… Qui c’è un altro torrese, il più famoso di tutti, Pietro Aurino, lo avrà sentito nominare, è andato pure lui alle Olimpiadi, ha smesso per molti anni, mo’ sembra che riprenda».
«Li vuole segnare tutti?», chiede Zurlo con la sua voce sommessa, implosa.
«Giuseppe Langella è stato campione italiano dei pesi welter, era un ragazzo che dava spettacolo, in Germania lo vide combattere Don King, quello con quei capelli ritti in testa che pare una scopa, l’organizzatore dell’incontro di Muhammed Alì e George Foreman nel 1974, lo voleva a tutti i costi, ma Giuseppe disse: “Aggia ì a do’ sta ‘o mare”, e tornò qui. È pescatore, non può stare senza il mare. Certe volte quando veniva ad allenarsi mezzo addormentato, gli buttavo l’acqua in faccia per svegliarlo, esce tutte le notti alle tre con il peschereccio, cala le reti e torna all’alba.
«Pasquale Perna, ha difeso per diciassette volte il titolo di campione d’Italia, ora sta benissimo, ha aperto con la moglie insegnante una scuola elementare privata, una delle migliori scuole della zona… E qui c’è Biagio, mio figlio, a cinque anni faceva già i guanti, si è ritirato imbattuto, l’unica volta che perse l’incontro fu perché si ruppe un gomito, fece la rivincita e riprese il titolo, ha lasciato perché vinse il concorso statale, insegna boxe al liceo di Torre e si batte perché diventi obbligatoria in tutte le scuole».
Tra le fotografie, un intruso, uno strano schema disegnato a mano di cui Lucio non ricorda più la genesi, lo guarda smarrito dietro le sue grandi lenti, proprio non sa cosa è, chi l’ha scritto. Si intitola “Manifesto della Boxe Vesuviana”, è composto da colonne e frecce: al centro Riscatto sociale, a sinistra Volontà di potenza-Nietzsche, a destra Dickens–Oliver Twist, a sinistra Olocausto, Seconda Guerra mondiale, freccia su Guernica e Cubismo, al centro URTI, a destra Verga-Malavoglia, a sinistra Macroscopici, freccia su impulso, Microscopici, freccia su fissione nucleare. L’ho ricostruito io cos’è: è la tesina della maturità del nipote Lucio, figlio di Biagio, nella quale la boxe intreccia tutte le materie, dalla letteratura alla filosofia alla fisica. Un frutto anomalo della capacità del nonno di essere un maestro, uno di quelli che cercano e sanno riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e lo fanno durare, gli danno spazio, come scrive Italo Calvino a conclusione delle Città Invisibili, descrivendo i due modi per non soffrire dell’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. L’altro modo, accettare l’inferno e diventarne parte, è quello che riesce facile a molti, non c’è bisogno di insegnarlo. (maria pace ottieri)
Leave a Reply