C’è ancora la luce del sole a spazzare via Toledo. Sono trascorsi venticinque minuti dallo scoccare delle 20. Mercoledì 17 maggio. Alcuni lo ricorderanno per il primo trofeo della stagione calcistica assegnato all’Olimpico. Altri per aver preso parte all’iniziativa della Fondazione Pietà de’ Turchini presso palazzo Zevallos. Molti ancora lo avranno dimenticato perché non c’era niente da ricordare.
La fila è corposa ma scorre veloce, semplice e lineare; il pubblico va poi a sedere nei posti non assegnati inscenando quei siparietti derivanti dall’occupare il posto pur lasciandolo vacante. Il vociare della sala in attesa si mescola con i suoni degli archi dalle quinte. Spasmodica continua la ricerca del posto libero per alcuni, mentre l’orario d’inizio sguscia lentamente dai suoi binari.
L’ospite illustre da New York – i musici di Caravaggio – contestualizza la serata. La sede è d’eccezione: palazzo Zevallos, cioè la proprietà esplicita delle banche di beni culturali. La rinascenza di una città in fermento lo ha poi eletto luogo d’incontro per una certa cultura. Quanto alla musica, la collaborazione con i conservatori campani permette pause pranzo musicali gratuite il mercoledì
La Fondazione Pietà de’ Turchini è un’istituzione culturale costituita nel 1994 come associazione per la riscoperta e la valorizzazione dello straordinario repertorio musicale del periodo che va dal XV al XVIII secolo. Nonostante la miseria che le spetta dal Fondo unico per lo spettacolo (una torta da cui devono sfamarsi tutti), ogni anno propone un cartellone in grado di porre Napoli al vertice quanto al repertorio considerato – questo sì di raro ascolto, soprattutto dal vivo.
Si piazzano davanti a me dei giovanotti tedeschi venuti a svernare in città mentre si conclude l’ingresso dei partecipanti: un sold out che rende necessaria una riconfigurazione dei posti a sedere. Un dato che rende giustizia al valore di un programma musicale ben pensato, in una location che svolge appieno il suo ruolo. Manca un quarto d’ora alle 21.
L’ingresso in scena del Giardino Armonico è accompagnato da un sonoro applauso. Un progetto realizzato con il contributo di palazzo Zevallos Stigliano – sede museale di Intesa Sanpaolo – ha permesso così alla fondazione di ospitare uno dei più importanti ensemble musicali specializzati nell’esecuzione con strumenti originali di musica strumentale e vocale del sei-settecento. Un’occasione unica per fare i conti col nostro passato musicale, la cui attualità affiora tanto dalla purezza cristallina della composizione quanto dal colore dei timbri diffusi dalle esecuzioni.
La musica accende il palazzo. Il trambusto di via Toledo diventa un lontano ricordo con l’ingresso ad solum dell’arpa che motiva gli spazi di uno spirito nuovo. Una musica che scorre senza soluzione di continuità, che non mette mai il punto ma risolve sempre per andare avanti. In essa tutto si piega, si dispiega, si ripiega. Insomma, anche i lettori di Deleuze avrebbero avuto degli argomenti validi per partecipare alla serata.
Il corpo degli esecutori svolge una funzione musicale: il flusso performativo modella la loro posizione grazie alla simbiosi con lo strumento. Quando il flauto guadagna la scena non asseconda forse la filologia, eppure si muove concorde alle prassi esecutive odierne che fanno dell’impossessarsi della scena un momento chiave della partecipazione del pubblico.
La musica emerge dal silenzio: la benché minima interferenza ne altererebbe la percezione. Un dispositivo regolato dall’autonomia che non necessita di direzione alcuna grazie al suo funzionamento a orologeria. Una musica che può suonare pure antica, eppure dalla chiarezza compositiva senza tempo. Ci sono momenti in cui il click fotografico supera la trama degli esecutori tanto rendono palpabile la pressione del suono.
Gabrielli, Legrenzi, Bassano, Castello i compositori della prima parte del programma. Si prosegue e il violoncellista Marcello Scandelli si fa notare per una cura e anima davvero ragguardevoli quando interpreta il concerto in Do Minore RV 401 di Vivaldi. Brividi.
Il cerimoniale vuole i musici muti ma sonanti. E così continua il concerto con una più frizzante composizione – Concerto in Sol Maggiore per flautino, archi e basso continuo di Pietro Nardini. Possiamo così apprezzare il virtuosismo, la cura, la gestualità, il controllo dello strumento da parte del maestro Giovanni Antonini nel muoversi concorde alla trama strumentale che sostiene la sua azione.
Nell’intervallo il pubblico è composto, attento e riservato. Nessun tabagista si lascia impossessare da smanie nicotiniche. Al massimo ci si serve delle toilette. Variegate le fila del pubblico: un buon numero di giovani premia questa rara offerta musicale. Occasione giusta per sgranchirsi un po’ le gambe e annusare quel che si dice intorno. Un pubblico fedele: questo è sembrato quello della serata, cui si aggiunge qualche comparsa dettata dalla ragguardevole circostanza.
Per il secondo tempo le luci si abbassano e suggeriscono un cambio di scena che consegna davvero una configurazione spaziale nuova. Vivaldi, Galuppi, Vivaldi. Questi gli autori performati, a mettere in campo una Venezia diversa che l’odierna patria delle immagini. In effetti, la musica barocca trovò nella città lagunare un’importante, decisiva diffusione.
La seconda parte del concerto scorre veloce. Che strumento, il flauto. Dovrebbero ascoltarlo tutte quelle persone che alle scuole medie pensavano di avere tra le mani uno strumento limitato, senza rendersi conto del potenziale di quel semplice tubo forato. Tanti applausi al direttore esecutore. Ma davvero tanti. Così tanti che non esauriscono il concerto. Servono due bis per convincere un pubblico mai domo che l’incanto è finito. Fuori li aspetta via Toledo, col suo panorama acustico che non fa una piega. (antonio mastrogiacomo)
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