L’etichetta cronologica confeziona e conserva sempre al meglio ogni genere. Per esempio, in musica, l’indicazione di “contemporanea” risulta un’arma vincente nell’avvicinare il pubblico alle sale concerti che, per non essere da meno, sono cambiate al punto da non essere riconoscibili. La settimana appena trascorsa mi ha portato per ben due volte a misurarmi con ascolti di musica contemporanea, in contesti e occasioni radicalmente diversi eppure discretamente vicini.
Partiamo dal più vicino presso Casa Morra dove La Digestion ha riaperto i battenti per il suo 2018. Il festival ha fatalmente raggiunto la maturità, riconosciuto finalmente da un pubblico non più solo napoletano: la gente si muove dalla Campania e non solo per sentire la musica improvvisata, ascoltata raramente. Addirittura la sala concerto è così gremita che non si entra. Certo, arriviamo tardi. Sono le 21e36 minuti primi. E arriviamo consapevolmente monchi dell’ascolto della lecture tenuta dal prof. Carlo Serra, ma pieni dell’ultima montanara utile dalla friggitoria del popolo, prima della sua chiusura, nella Napoli dei turisti. Casa Morra è la decadenza fatta estetizzazione: il fascino dell’abbandono si confà a chi non riesce a stare lontano dall’arte e ora che il festival ha preso vigore l’affiliazione risulta tanto protettiva quanto sprecata. Al punto che il bordello di gente presente fa proprio storcere il naso riflettendo sull’inadeguatezza chirurgicamente offerta nel dare a tutti modo di essere presenti. Per fortuna a non tutti interessa davvero e in tanti sfruttano l’appuntamento per approfondirne il carattere dell’acchiappiamoci là. Sono previsti due set che si differenzieranno per spazi, pratiche, gesti, sorrisi. Apre Elio Martusciello, il musicista autodidatta che sta insegnando ai napoletani tutti che si può fare musica diversamente. Cioè, che si può essere musicisti senza dover essere maestri. La musica di Elio non vive di standard, ma vibra degli altri che l’attraversano. Offre un ascolto, non lo impone. La sua composizione in tempo reale si compone del tempo reale impiegato per comporla. Ogni gesto nasce da una emersione del momento che lo produce.
Un telo nero copre il suo banco, più piccolo di quello blu disposto per Otomo Yoshide. Quando finisce c’è giusto il tempo di prendere posto per ascoltare il musicista nipponico. La prima schitarrata e usciamo fuori, stavolta volutamente. La pressione sonora cui vuole ricondurre la sua azione è di quelle che si impongono, così scelgo di rifiutarla. Lo ascolto dalla sala accanto, quello che succede resta invariato tanto l’informazione mi arriva lo stesso. Poco da dire. Chissà da quanti anni fa sta cosa, beato lui che non si scoccia. Senza dubbio è bravo assai perché fa convivere i suoni che pure si trovano in range frequenziali distanti, perché sa arrivare ai segmenti che animano il decorso musicale con discreta convinzione, perché sa giostrare anche gli intervalli del silenzio, perché introduce elementi stranianti che lavorano per lui. Però, è noioso che te lo aspetti, per esempio il finale. Capito, Otomo? Ma hai fatto bene, perché quel mattatoio doveva pure finire di vibrare. «Questa musica non ha speranza», dice lei dietro di me. Però ha fatto impazzire molti che erano evidentemente contenti di prendere parte alla sua azione che, a dispetto della resa acustica, era quasi zen quanto a gestualità esecutiva. Un abbraccio a tutti gli intervenuti, baci baci, tra un ci vediamo e un infatti, proseguiamo dritti verso casa. Sono le 23e47 di sabato 3 febbraio.
Giovedì 1 febbraio dalle ore 20e33 il teatro Sannazzaro ha ospitato invece il 13esimo appuntamento della stagione concertistica dell’associazione Alessandro Scarlatti. Carlo Boccadoro arriva a Napoli insieme a Sentieri Selvaggi, l’ensamble che dal 1997 propone esecuzioni di musica anglo americana in giro per il mondo, diffondendo un repertorio che sfugge alle maglie della programmazione continuata. Per fortuna ci ha pensato, come spesso succede, l’associazione Scarlatti a colmare questo vuoto. Il concerto propone una letteratura musicale fatta di autori ancora oggi viventi, più o meno famosi. Ma il punto non è il concerto quanto lo spirito che lo animato: sincero, attento, puramente relazionale. Il confine tra pubblico ed esecutori è stato abbattuto dalle note di sala, costruite in tempo reale in sala, per la voce e gli interventi dello stesso direttore Boccadoro, pronto a non lesinare informazioni e guidare il pubblico. Si è creata così una sincera sintonia che, senza alcun intervallo, ha dato modo di imbattersi in fascinose poliritmie e complessi giri armonici, fino ad arrivare a battiti di mani in forma di esecuzioni in corso di sfasamento e macchine musicali pronte a interrompersi. Insomma, c’è tanto spazio per quel che ancora non si conosce quando si va a un concerto senza passare per la prigione della ripetizione.
Elettronica o acustica, improvvisata o eseguita, la musica contemporanea merita rispetto e attenzione al pari del dignitoso campionato del Benevento, perché il risultato è solo una conseguenza, non il fine. (antonio mastrogiacomo)
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