Sabato sera (ndr, 7 gennaio c.m.) sono stato al San Carlo. Per quanto non gliene possa fregare a nessuno, non ci andavo da un po’. Tre anni. Dovete sapere che under trenta e over sessantacinque vi costa quindici euro, uno spettacolo (chiamarlo altrimenti sarebbe riduttivo) di musica sinfonica al San Carlo. Mi restano meno di tre anni nel primo dei due club esclusivi.
Cominciare quest’anno all’insegna della musica sinfonica non mi è affatto dispiaciuto. Se non lo fai da un po’, ti accorgi della differenza. C’è musica e musica; eppure, dai dispositivi attraverso cui si riproduce non lo si direbbe. Dai luoghi in cui viene (ri)prodotta, sì.
Il San Carlo, la musica sinfonica, il sabato sera.
Il San Carlo registra modificazioni nella sua struttura e nella sua funzione. Ci sono stati dei lavori di ristrutturazione. Se n’è parlato diffusamente. L’acustica non ne ha guadagnato. Forse ci ha perso. Insomma, se succede in un teatro non è una cosa buona. Succede anche altrove, per la cronaca. Restaurare il San Carlo e garantire il confort degli spettatori: le operazioni, oltre a quelle strutturali, andavano in tal senso. Leggiamo di adeguamento ai tempi, ai modi, alle mode, agli spettatori. Ci sono entrati più asiatici nei primi anni Duemila che in tutto il Novecento?
Dunque, la funzione: il book shop, il ridotto San Carlo. E soprattutto il museo. Il museo è una chicca da offrire a chi può dire di essere stato al San Carlo: si va a visitare la macchina senza vederla in azione. Tipo le chiese. Dunque, visite guidate, un giro per il museo ad ascoltarne la storia, i legami con quello che stava fuori e che immancabilmente segnava quello che succedeva dentro.
Va bene. Il giorno 4 dicembre abbiamo comprato i biglietti. Sul biglietto c’è scritto chi vai a sentire, non cosa vai a sentire. Giustifica il mio stupore quando ho scoperto che avrei ascoltato Dvořák e Brahms. Di Antonin Dvořák, Concerto per violoncello e orchestra n. 2 in si minore, op. 104 e di Johannes Brahms, Sinfonia n. 2 in re maggiore per orchestra, op. 73. Pensavo altro.
Sul podio Daniel Oren, violoncello solista Enrico Dindo, orchestra del teatro San Carlo. L’applauso al primo violino, cui è demandato il “la” di intonazione, parte dal primo flauto. Il concerto inizia puntuale. Il pubblico in sala è abbastanza: garantisco una copertura del settanta per cento dei posti a disposizione, il picco in platea.
Difficilissimo per Daniel Oren trovare il momento per attaccare. Oren lo cerca. Non lo trova. Comincia.
L’inizio dispiega il cammino poderoso del concerto, a preparare l’entrata del violoncello. Concertare significa combattere, gareggiare. Col tempo acquisisce il significato comune di operare in piena alleanza. Nato nel Seicento, è con Mozart che si afferma il concerto classico, in cui elemento predominante è il solista. Si lavora sulle possibilità espressive e tecniche dello strumento, oltre a far emergere il virtuosismo dell’esecutore. Si articola in tre tempi: allegro, adagio, allegro. Doveva piacere per forza a Hegel.
Quando si chiude il primo movimento il complesso dell’applauso viene sventato dal pubblico che impone il tacet alle mani con un sonoro shhhh.
Un bel po’ di cappotti ha avuto l’onore di sedersi sulle sedie della platea.
Dei due concerti scritti per violoncello dal musicista boemo, già direttore del conservatorio di New York, è l’unico rimasto nel repertorio dei solisti di questo strumento: lavoro del suo soggiorno americano legato alla tradizione europea, al patrimonio popolare boemo.
Le orchestrali indossano l’abito che ritengono adatto, purché nero. In uniforme da strumentista gli altri. Direttore e solista esclusi, in total black. Le maschere hanno l’abito blu. Non più rosso.
Il compositore tratta lo strumento con ricchezza di colore, lavora sulla timbrica. Il romanticismo vena il secondo tempo: la pura interiorità che si dà in sé e per sé. Ce lo suggerisce Enrico Dindo, col performare in comunione con lo strumento e il suo flusso creativo.
La fine del secondo tempo viene magistralmente controllata dal direttore quanto a pressione sonora. Poi vengono giù i tossire generali.
Nel terzo movimento, finalmente gli interventi del triangolo, uno degli strumenti più discussi tra le percussioni. Quando c’è si nota, come il vocativo nelle versioni. Il finale in forma di rondò conclude gaiamente la composizione.
Oren lascia al solista la scena, gli applausi. Il pubblico si esibisce in tre minuti di applausi. Così il direttore fa alzare corno, clarinetto e flauto. Applausi. Dindo propone un bis – da apprezzare la qualità del timbro, la profondità degli armonici. Applausi. Gli orchestrali rientrano “negli spogliatoi”. Venti minuti di intervallo.
Due parole sul pubblico. Educato, ligio alla programmazione del Massimo partenopeo, si scatena nella ripresa delle pellicce dal posto di cui sopra. La turista nipponica ne approfitta per scattare più picture possibili con la sua Fujifilm. Tra gli altri, chi ne approfitta per fumare, chi per scaturchiare, chi resta in platea, seduto, a chiacchierare.
Dieci minuti.
L’unico suono acusmatico è l’annuncio-count down per la ripresa del programma. Con poca diplomazia si ordina il palco, spostando le sedie a man bassa mentre il pubblico guadagna la scena tra i protagonisti della serata. Chiaramente, mentre tutti parlano nessuno tossisce.
Cinque minuti.
Che gran festa quando si ritorna sul palco a performare. La sinfonia come la conosciamo noi, in quanto composizione strumentale per orchestra, autonoma, articolata in più tempi, è della fine del XVII secolo, quando l’organico strumentale presente oscillava dai sei ai quindici musicisti.
Per la Sinfonia n. 2 di Brahms, il solista si aggiunge all’orchestra: pochi altri gli innesti. Se ne va il triangolo. Due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, quattro corni, due trombe, tre tromboni, tuba, timpani e archi: un grande organico orchestrale articola la sinfonia, in quattro tempi come la sonata.
Alle 21:45 il “la” alla ripresa. Il solito alveare di suono e Oren torna sul podio. Saluta il pubblico, gli dice del violoncellista aggiunto e riprende la direzione dell’orchestra.
Il nome di Pastorale si addice abbastanza bene all’atmosfera evocata dalla sinfonia. Il primo movimento è a guida dei corni e dei violoncelli, dialogano per poi quietarsi. L’adagio del secondo tempo, pur inizialmente malinconico, si rischiara col ritorno del tema iniziale affidato ai fiati, concluso con una corona di tutta l’orchestra. I violoncelli pizzicati mentre l’oboe prima, gli altri poi, ricamano la melodia per il terzo tempo, elegante e avvolgente nei contrasti timbrici. Per l’allegro con spirito del finale, ritorna il clima pastorale del primo movimento. Lo sviluppo prelude a un episodio finale che corona degnamente la sinfonia. Fortissimo l’impatto.
Il pubblico si dilegua mentre l’orchestra si prende i suoi meritati applausi – vuole evitare la calca all’uscita tipo ingresso sulla tangenziale. Il sabato sera si può scegliere il santo a cui votarsi. Si può preferire il San Carlo al San Paolo. (antonio mastrogiacomo)
1 Comment