Contatto Massimo Scamarcio intorno a ora di pranzo. Ho visto un’opera – MIKROKOSMOS, realizzata a quattro mani con Neal Peruffo – di cui ha curato la parte audio. Il contesto è il Palazzo delle Arti di Napoli: da sabato 22 aprile si tengono gli Happy eARTh Days, giornate che pongono al centro il tema della sensibilizzazione all’ambiente, e sono in mostra opere selezionate che provano a riflettere sulla questione – alcune estetizzandola maldestramente, altre lasciando buoni spunti.
Mi sembra l’occasione giusta per fargli qualche domanda sul decorso della sound art a Napoli. «Ammesso che sia possibile documentare una tradizione napoletana di opere orientate in tal senso – dice Scamarcio –, siamo in due, Roberto Pugliese e io, gli artisti napoletani a esserci dedicati specificatamente alla sound art. Vi è invece una quantità di artisti visivi che hanno incorporato, ovviamente, suono nelle loro opere (come elemento decorativo e/o marginale rispetto alla natura visiva dell’opera), soprattutto in tempi molto recenti ma comunque non si tratta di sound art. Siamo comunque molto lontani dal poter tracciare una storia della sound art napoletana».
Così gli chiedo cosa possiamo intendere per sound art; lo spiega a partire da MIKROKOSMOS. «Si tratta di progettare un ambiente che preveda una dimensione non marginale per il suono. In questo caso viene diffuso tramite molteplici fonti, sfruttando gli algoritmi genetici e gli ecosistemi artificiali. L’installazione, alla sua radice, è strutturata come un piccolo ecosistema artificiale: ciò viene reso non solo dagli elementi più visivamente e acusticamente connotati (la scelta della luce verde, l’ambiente separato, le cuffiette che pendono come liane, i suoni che possono rimandare a un sottobosco, ecc.) ma anche dal fatto che il sistema che organizza e regola i suoni che si ascoltano è retto da leggi ecosistemiche simulate in programmazione audio. I suoni sono come “esseri” simulati, con un decorso evolutivo regolato da leggi mutuate (seppur estremamente semplificate) dalle dinamiche che regolano gli ecosistemi naturali. Quindi nascono, muoiono, si evolvono, si riproducono in maniera non (completamente) casuale ma secondo meccanismi biologici come l’omeostasi, il feedback e così via. Anche questo contribuisce al carattere “organico” del suono».
Data la complessità del linguaggio impiegato gli chiedo di scendere un po’ più in basso e di spiegarmi cosa possiamo intendere per un’opera di sound art. «Si tratta di un’installazione sonora, ovvero un’opera d’arte ambientale che utilizza il suono come elemento principale della sua struttura e composizione. L’ambiente stesso diviene parte del lavoro, che per sua natura, carattere e finalità ne altera la percezione. Il visitatore non rimane quale osservatore esterno, ma al contrario diventa parte dell’installazione, a diversi livelli e gradi. Nelle installazioni sonore, il legame con lo spazio e il carattere immersivo dell’esperienza sono decisivi, poiché il suono, quale elemento sempre presente della nostra vita quotidiana, è connesso con l’ambiente che lo genera e nel quale si diffonde. Inoltre, ne siamo continuamente circondati, e al contrario degli occhi, non disponiamo di “palpebre per le orecchie”».
Diradata la coltre dei tecnicismi, gli chiedo in ultima battuta per quale motivo la sound art goda di meno spazi che il sound design. «Forse perché il sound design è un ambiente traversale e multidisciplinare, molto più della sound art, e nel quale si riversano profili professionali molto diversi. Vi è poi una decisa potenzialità commerciale del sound design (cinema, pubblicità…) che lo rende molto più adatto a essere utilizzato in ambiti e mercati in cui vengono messi in gioco molti soldi».
La sound art circoscrive un campo di possibilità diverso che non la solita ritualità con cui abbiamo a che fare quando entriamo in contatto con la musica live. Sebbene non venga meno la sua portata auratica, il grado di partecipazione dello spettatore sembra essere ben altro che la solita separazione. (antonio mastrogiacomo)
1 Comment