La prima di una stagione musicale si veste di diversi significati in grado di contestualizzare l’evento di per sé mondano. E il concerto di William Basinski più di altri sancisce l’incontro tra produzione culturale e intrattenimento. Si respira l’aria dell’evento e la fiumana di pubblico che raggiunge il civico 1-7 di via Salvatore Tommasi si placa sulla scalinata della chiesa di San Potito, riaperta per l’occasione. Ritorna La Digestion, festival di dimensioni altre che non i confini ristretti in cui la musica raramente ascoltata trova spazio. Da un lato lo stato d’eccezione in cui versa la scena musicale improvvisativa – e non – partenopea, dall’altro il richiamo di un artista il cui nome funziona come pochi, così Phonurgia raccoglie abbondanti i frutti di una stagione artistica sapientemente costruita.
L’ingresso è preambolo al rito che – altro che la Champions – si consumerà negli ampi spazi di una chiesa per la prima volta sala di concerto. Cessa la musica e si aspetta il silenzio. Sono le 21e45. Entrano i fumaioli. L’atmosfera è di quelle sacre come solo una chiesa che risuona di musica può suggerire. E ognuno a suo modo è parte dell’evento. Non vi nascondo che l’attenzione per il pubblico vibra più forte che quella per l’artista in mostra.
Applausi e William che saluta, agghindato in quello che è un voluto plagio formale di David Bowie. Si rivolge al pubblico: comunicare in questo contesto già rompe il solito schema del concerto come esibizione mai verbale. «Sarà un funerale per un amico e per un eroe. Un grazie ai presenti». In pratica, vuole confinare il concerto nella forma di un rito. Addirittura le luci, per approfondire la profondità dello spazio in un mantello rosso-blu. E vai di cellulari, a desacralizzare il momento. Siamo sulla strada dello spettacolo che arricchisce irreversibilmente la musica dell’elemento visuale.
E quindi Basinski fa Basinski. E il pubblico sulle sedie. Purtroppo non è assolutamente facile apprezzare il lavoro proposto, che vive di una relazione con lo spazio piuttosto inadeguata, ovvero solo in senso frontale. Certo, manco si può ascoltare quel lavoro di scardinamento del drone sul drone che è un po’ la cifra stilistica dell’autore statunitense. Poi sovrappone una cellula in discronia e decisamente fuori consonanza, in un esercizio di progressiva osmosi dei corpi musicali in movimento, ma siamo ben lontani dall’accuratezza di un sempre dimenticato Cowell che un secolo or sono costruiva musica anticipando tutti sul tempo.
L’adeguamento procede, si sgretola per amalgamarsi ma il dominio delle frequenze basse a scapito delle alte inficia proprio il decorso musicale che suona confuso. Alla fine, Basinski è sta roba qua. Magari sarà pure noioso per un artista legarsi a una forma. Oh, sia chiaro, è nu mostro, stiamo noi a sentire lui, eh. Per fortuna, il contesto prepara quello che si annuncerà come un applauso lunghissimo, vuoi perché il pubblico ci tiene, vuoi perché rappresenta l’ antidoto migliore a quello che ha appena ascoltato, vuoi perché è il prezzo da pagare per chi suona per chi ha pagato.
Le celulle melodiche – sarebbe a dire i mattoni della composizione – continuano a mettersi di mezzo. Gli inattesi colori del Bologna riempiono lo sfondo su cui Basinski erompe, lieto della sua statuaria incomunicabilità visuale. Aderisce di buon grado alle direttive del Concilio Vaticano II, ponendo Cristo alle spalle ma non i fedeli.
Il controllo delle basse è da far vibrare le finestre alla chiesa in apertura straordinaria – quelle cose che manco il FAI. E poi una nuova era di suoni digitali inizia a sovrapporsi, a fare leva su quello che è il cadavere in putrefazione di una cellula musicale iniziale che stenta a farsi polvere. Quando finisce il “primo tempo” nessuno applaude; che rispetto dell’artista!
L’incrocio delle tessiture ricama l’organizzazione del suono. Apprezzo solo la pressione sonora che non può essere eccessiva altrimenti si sfonda tutto, e che dunque non risulta assolutamente immersiva. La apprezzo perché questo concerto è più spettacolo che musica. Non mi sorprende, infatti, che il suo lavoro sia ascoltato con piacere da tutti: è comprensibile come poche altre opere riescono, in questo genere spesso confuso tra derive autoritarie. Il lavoro sulla pressione sonora è a tratti scostante. Definirlo un Feldman per i semplici è un’offesa alla categoria dei suoni verticali.
In ultima analisi, per quanto ripetitiva, la sua musica non è ossessiva ma accogliente. In modi diversi questo risulta tanto dai materiali quanto dalla composizione che li organizza – si veda l’ultimo intervento accordale che suona un po’ come il miele alle mosche: smettono di ronzare per restare intrappolate nel glucosio. Forza Napoli. (antonio mastrogiacomo)
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